Ravenna, teatro Alighieri, “La traviata” di Giuseppe Verdi
VIOLETTA NELLA LANTERNA
Violetta è già morta, fin dall'inizio. Uccisa da chi l'ha “usata”, violata, violentata. È un'anima bianca, in sottoveste e scalza, eterna, disincarnata. E si rispecchia di continuo, nelle cinque replicanti, anime bianche simili a lei, nel gioco di specchi che circondano il palcoscenico, nei suoni spazializzati, amplificati, echeggianti. Violetta è una farfalla dentro una lanterna, accecata dalla luce, che si dibatte senza riuscire a scappare, a liberarsi, a librarsi ancora nell'aria. Rimane estranea al contesto: anche durante la festa in casa di Flora è elegantemente vestita di nero, ma sempre a piedi nudi. E alla fine non può che essere cerea nel volto, le labbra esangui, gli occhi cerchiati di nero, i capelli stopposi. Ma non si accascia al suolo, lei che morta lo è già, nell'anima, dall'inizio. Violetta si volta, dà le spalle al pubblico e si incammina verso la luce, verso una (possibile?) redenzione.
La regia di Cristina Mazzavillani Muti parte da questa idea originale per declinare la storia ed inserirla nel contesto del festival 2008, intitolato “Erranti, erotiche, eretiche” parafrasando il titolo di uno scritto del pittore Osvaldo Licini, di cui quest'anno ricorre il cinquantenario della morte (a lui Ascoli Piceno e Monte Vidon Corrado dedicano due mostre esaustive e la rara possibilità di visitare per la prima ed unica volta la casa natale dell'artista come lui l'ha lasciata, con le tracce dei pennelli ancora sui davanzali - vedi mia recensione nella sezione “arte fuori dal palco”). Regia che però si riduce a un caleidoscopio di luci ed immagini riflesse, una lanterna magica che, seppure affascinante, non basta, poiché non coinvolge e non emoziona. Soprattutto nel secondo atto, che risulta il più debole. Qui la danza delle zingarelle e del matador è un delirio di spettri, l'incarnazione di incubi, violenza e abusi che principia con una seduta spiritica che richiama alla vita un cadavere per sottoporlo ad umiliazioni ed abusi.
La parte attoriale oscilla tra una gestualità decontestualizzata (invece che tirarle soldi, nel secondo atto, Alfredo le getta addosso la giacca; “Abbracciami” e invece si allontana) e il ricorrere alla maniera, il bicchiere d'acqua, la lettera: forse era meglio una totale astrazione dell'azione, un atto più coraggioso di distacco, distante da ogni materialità e riferimento. Perplessità desta l'uso dell'eco e della riproduzione-diffusione di suoni registrati (a cura di Luigi Ceccarelli), come anche le ballerine di Micha von Hoecke, non ben inserite nell'insieme.
La scena di Italo Grassi e Vincent Longuemare consta solo di tredici specchi basculanti che lasciano vedere i muri perimetrali del palcoscenico, su cui si proiettano le splendide luci di Longuemare. Luci che costituiscono la parte importante e significativa dello spettacolo, sia quando evocano luoghi reali (il verde e l'azzurro della campagna dove si rifugiano Alfredo e Violetta, che diventa autunnale nel virare dell'atto; oppure il verde a scacchi del tavolo da gioco che diviene nero ardesia quando Alfredo umilia Violetta), sia quando evocano stati d'animo, dal viola all'arancio, dal bianco e nero al rosso inferno, in mille reciproci riverberi anche nei palchi. I costumi di Alessandro Lai situano l'azione ai giorni nostri e in ambiente altoborghese; i coristi, sempre immobili, sono spettatori nei pachi di proscenio e nelle ali che abbracciano ai lati il golfo mistico. Inutile la presenza di Claudio Veneri, che, suonando un “Muzio Clementi & Co.” del 1813, introduce i tre atti, una sonorità che contrasta col risultato orchestrale e soprattutto con l'effetto di riproduzione artificiale del suono.
Per una connotazione così particolare della storia il direttore Patrick Fournillier sceglie una tinta scura ma dilata troppo i tempi, allargandoli a dismisura nei momenti sinfonici. L'Orchestra dell'Emilia Romagna lo segue bene, a tratti i volumi sono troppo importanti, ma l'amalgama con il palco c'è. Verso la fine troppo robusto l'apporto del coro del teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati e posizionato in scomode postazioni fisse in pratica in platea, il che falsa i rapporti di equilibrio volumetrico.
Irina Dubrovskaja ha sostituito due giorni prima del debutto l'annunciata (e indisposta) Monica Tarone e ben si è calata nella parte, che richiede due anime di soprano, lirica e drammatica, e la russa ha dimostrato di avere ottime doti nei momenti lirici (il drammatico va più curato, ma è così giovane). Non ha buona dizione e ciò pesa in particolare nei momenti “parlati” ma la sicurezza nel registro alto e lo spessore del medio e del grave sono tali per cui quello che sarebbe un problema diviene un elemento marginale e trascurabile, poiché la tecnica è buona e la voce notevole. Non all'altezza invece Francesco Malapena (Alfredo): la voce è di bel colore e morbida, lo squillo è potente, ma la prestazione è tutta di forza, una eccessiva esibizione di muscolarità vocale senza un mezzo adeguato (chiude “O mio rimorso! O infamia” con la nota bassa). Adeguato il Germont di Nicola Alaimo, seppure la voce scura non è troppo ricca di sfumature.
I personaggi di contorno rimangono ai margini dell'azione, al di fuori della “lanterna”, spesso voci fuori campo: Stefania Ferrari (Flora), Alìda Berti (Annina), Carlo Morganti (Gastone), Tommaso Norelli (Barone Douphol), Diego Arturo Manto (Marchese d'Obigny) e Federico Benetti (Dottore Grenvil).
Teatro gremito, pubblico molto plaudente all'inizio, via via più freddino verso la fine. Applausi per i cantanti e il direttore, in particolare per la protagonista, qualche dissenso per il tenore, fischi dal loggione per la regista.
Visto a Ravenna, teatro Alighieri, il 15 giugno 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Alighieri
di Ravenna
(RA)