Lirica
LA TRAVIATA

TRAVIATA AL CUBO

TRAVIATA AL CUBO
Torino, teatro Regio, “La traviata “ di Giuseppe Verdi TRAVIATA AL CUBO In tempi di crisi il Regio di Torino sceglie uno dei titoli più popolari del repertorio come opera inaugurale scommettendo sull’allestimento di Laurent Pelly (regista francese in ascesa di cui abbiamo di recente visto e recensito l’Elisir d’amore a Parigi e la cui Volpe astuta sta per inaugurare la stagione del Comunale di Firenze), che fa il tutto esaurito, ma suscita pareri discordi. Lo spettacolo è stato presentato l’estate scorsa all’Opera di Santa Fe ed è stato “tagliato su misura” per il debutto nel ruolo di Natalie Dessay, cantante con cui lo stesso regista aveva realizzato una memorabile “Fille du Régiment”. La scena fissa di Chantal Thomas prevede una cascata di blocchi grigi, posati sfalsati e costeggiati da scale, che con piccole, ma efficaci, variazioni si adattano a suggerire i vari ambienti o arredi previsti dall’opera, funzionando altresì come pedane praticabili per il continuo e impegnativo movimento scenico di coro e protagonisti. Sulle note del preludio, in un’alba livida e grigia, sfila fra le tombe di un cimitero un corteo funebre a cui assiste anche Alfredo che, di fronte al funerale dell’amata, viene sommerso dal flusso di ricordi. Il flash back esplode con l’apparizione di Violetta che irrompe sulla scena in tutta la sua sensualità, in abito fucsia di tulle e satin e capelli rossi, marcando un forte contrasto con il grigiore invernale della scena precedente, peraltro accentuato da grida e risolini decisamente chiassosi che, se pur rientrino in un certo cliché del mondo delle demi-mondaines di fine Ottocento, risultano fastidiosi e stridono con la dolente atmosfera iniziale. Nel secondo atto, un verde manto erboso invade parte della scena separando in diagonale il mondo della realtà da quello dell’illusione: volumi cupi e cinerei sulla sinistra, un prato e rami frondosi per l’idillio bucolico-amoroso di Alfredo e Violetta a piedi nudi sull’erba a destra. Durante la festa da Flora le zingarelle ballano come cubiste sui blocchi ed i parallelepipedi si rivestono di superfici specchianti, diventando una cascata scintillante ideale per un locale notturno dove troneggia un grande lampadario di vetro dalla linea déco. Lo spettacolo non mantiene la tradizionale divisione in tre atti, ma prevede un’insolita pausa a metà del secondo atto. La transizione dal secondo al terzo atto avviene senza soluzione di continuità e durante il preludio del terzo atto assistiamo alla trasformazione a vista di una scena di festa in scena di morte: Violetta viene svestita dall’abito da sera da un gruppo di donne rimanendo in camicia da notte, mentre lenzuoli bianchi coprono i blocchi creando un’immagine di lutto o dipartita. Violetta muore da sola, e nel cadere a terra, con un gesto carico di violenza disperata, tira giù il lenzuolo scoprendo la propria tomba di granito chiudendo logicamente il flash back. E l’opera termina proprio qui, sull’esclamazione “Oh gioia“ della protagonista, con tale intensità da rendere inutili, e quindi tagliate, le battute successive degli astanti. Momenti riusciti, in cui un minimo gesto dà grande portata emozionale alla scena, si alternano a inutili cadute di gusto, soprattutto nelle scene di festa o del carnevale troppo rumorose e volgari, ed il volere negare certe sfumature “sentimentali” rischia di appiattire la rappresentazione, facendo scadere nel prosaico spunti che avrebbero potuto generare ben altri approfondimenti. Due cast si sono alternati nelle recite torinesi, nel secondo si è distinta Irina Lungu, una Violetta scenicamente credibile e di avvenenza esplosiva. La voce gradevole e duttile convince nei momenti di canto sfogato e nel registro acuto, un po’ meno a fuoco quello centrale. Dopo qualche incertezza nel primo atto, conquista progressivamente il pubblico (che le tributa ovazioni a scena aperta) con un’esecuzione sicura ed in crescendo ed è soprattutto nel confronto con Germont che trova maggiori sfumature. Andrea Caré nel ruolo di Alfredo sfoggia voce omogenea e timbro gradevole, i mezzi vocali ci sono tutti, manca però autentica espressività e maggiore disinvoltura per una piena caratterizzazione del ruolo. Angelo Veccia è un Giorgio Germont autoritario e senile, di voce ruvida e fraseggio raffinato, adatti a sottolineare la durezza monolitica di Germont. Efficace come viene introdotta “non udrai rimproveri” : dopo aver accennato, e soffocato, uno schiaffo al figlio, la musica si ferma a lungo per dargli il tempo di riflettere sul gesto e trovare nella cabaletta uno sprazzo di umanità. Anastasia Boldyreva è una Flora avvenente, ma la voce è piuttosto piccola. Incisivo Enrico Iviglia nel ruolo di Gastone, corretta l’Annina di Bernadette Lucarini. Fra gli altri comprimari ricordiamo Paolo Maria Orecchia nel ruolo di Douphol, Mario Bellanova in D’Obigny e Francesco Musinu nel Dottor Grenvil. Come in altre occasioni Gianandrea Noseda imprime una direzione di respiro sinfonico, tutta giocata sulla variazione della dinamica, con tempi e ritmi estremamete mutevoli, che, se al solo ascolto possono sembrare opinabili, funzionano perfettamente in teatro, risultando motivati e pregnanti. La musica corre frenetica, rallenta, si ferma, incalza di nuovo commentando la vicenda come fosse un feuilleton, ma sempre all’insegna dell’equilibrio fra buca e palcoscenico. Ottima la prova del coro, in parte disposto nella buca, preparato da Roberto Gabbiani. Un pubblico soddisfatto e partecipe ha tributato a tutti applausi convinti, dimostrando particolare apprezzamento alla giovane protagonista. Visto a Torino, teatro Regio, il 28 ottobre 2009 Ilaria Bellini
Visto il
al Regio di Torino (TO)