La traviata è entrata ormai stabilmente in cartellone al Teatro La Fenice, con più riprese durante la medesima stagione e, nella presente, ogni mese per il progetto Expo Traviata.
Ad oltre un secolo e mezzo di distanza dalla prima esecuzione, l’opera continua a suscitare interrogativi, riletture e accese emozioni. La mitica produzione, tanto discussa e criticata quanto efficace e sbalorditiva, che segnò, nel 2004, la riapertura del teatro La Fenice, ricostruito in seguito al rovinoso incendio del 1996, vede uniti gli sforzi di Robert Carsen, curatore della regia, e Patrick Kinmonth, chiamato a ideare scene e costumi. Le caratterizzazioni psicologiche emergono vivide e stagliate nell’insormontabile solitudine umana, cifra prima della società dei consumi e dei facili riconoscimenti. L’infantile carattere del giovane Alfredo tende a filtrare la realtà unicamente attraverso il mondo trasognante dei sentimenti. L’aspetto aristocratico di Germont, incapace di celare un atteggiamento ipocrita, è la perfetta antitesi alla dissolutezza, quasi irreparabile, degli usi e costumi giovanili. Violetta Valéry funge da vittima sacrificale per placare il risentimento della società, incapace di digerire il suo candore morale. Carsen affonda il dito nella malattia, immaginando una protagonista dipendente dai farmaci, o meglio dalla droga, e circondata da ricchezze senza fine. La prima parte del secondo atto si svolge all’aperto, in un giardino autunnale dove, a sostituire le foglie, vi sono innumerevoli banconote che volteggiano fino a toccare il suolo: immagine vivida della caducità dell’esistenza e dell’effimero benessere proveniente del denaro. Nell’ultimo atto si impone un desolante spazio sguarnito che inquadra lo stato d’abbandono in cui versa la casa della protagonista, ormai indigente, sola e malata.
La giovanissima Francesca Dotto è impegnata nel ruolo di Violetta Valery. Dalla Lucrezia Borgia inscenata a Padova nel 2013, è avvenuta una profonda maturazione nell’interprete: la presenza scenica appare più naturale, capace di risaltare tanto l’effervescenza della gioventù, quanto le sofferenze causate dal morbo, mentre la voce si impone per le screziature suadenti e la duttilità che garantiscono il giusto approccio con la scrittura, così variegata nell’arco dei tre atti. Matteo Lippi fa del suo meglio nei panni di Alfredo. Il tenore genovese ha timbro luminoso e apprezzabile omogeneità. Si nota, al contrario, qualche debolezza attoriale, risolvibile in futuro. Simone Piazzola esibisce la propria preparazione nei panni di Giorgio Germont. Fraseggio e presenza sono invidiabili. La voce ha colore baritonale autentico, ideale per i ruoli verdiani. Il lungo duetto del secondo atto e la successiva aria vengono affrontati con personalità e valida intesa, tanto con la buca quanto con i colleghi. Completano il cast Elisabetta Martorana, Flora Bervoix, Sabrina Vianello, Annina, Iorio Zennaro, Gastone, Armando Gabba, barone Douphol, Mattia Denti, dottor Grenvil, Matteo Ferrara, marchese d’Obigny.
La lunga esperienza di Stefano Rabaglia dà luogo ad una concertazione solida, nonostante una certa avarizia di sfumature. La sua lettura sostiene i cantanti e offre un plastico tappeto sonoro, capace di piegarsi alle esigenze e sceniche e vocali. Positiva la prova dell’Orchestra del Teatro La Fenice la quale dimostra di conoscere bene la partitura. Anche il Coro, istruito da Claudio Marino Moretti, fa valere la propria preparazione.
Teatro gremito e festante durante lo spettacolo e al termine.