Traviata è un’opera capace di mettere tutti d’accordo. Piace ai melomani più raffinati, ma allo stesso tempo arriva dritta al cuore del grande pubblico, che segue con il groppo alla gola le vicende della protagonista e si commuove di fronte al suo gesto sublime: la rinunzia all’amore come estremo atto d’amore.
Al San Carlo di Napoli la creazione verdiana ha registrato il tutto esaurito anche alla sesta rappresentazione (quella vista da chi scrive), nella quale i tre ruoli principali erano affidati a Ekaterina Sadovnikova (Violetta ‘alternativa’ a Irina Lungu, interprete della prima), Gianluca Terranova (Alfredo) e Simone Piazzola (Giorgio Germont ‘in seconda’ rispetto al titolare Dario Solari). Giovane soprano russo, la Sadovnikova possiede un’intonazione precisa e una notevole agilità, ma ha una voce dal volume decisamente limitato, priva dello spessore – sonoro e drammatico – necessario alla protagonista. Più convincente la prova di Terranova, dotato di bel timbro e buona presenza scenica, che però non è sempre riuscito a centrare, nella gestualità e nella recitazione, il carattere di Alfredo. Assai promettente è il venticinquenne Piazzola, a proprio agio nei panni di un personaggio complesso e impegnativo come il vecchio Germont. Rispettosa e appassionata insieme è risultata la direzione di Giampaolo Maria Bisanti, che ha tratteggiato suggestive atmosfere strumentali (come nell’avvio dell’atto terzo) e ha conferito all’intera performance un ritmo nitido e coeso.
Ma a caratterizzare l’allestimento partenopeo è stata soprattutto l’invenzione scenografica di Josef Svoboda (1920-2001), qui ripresa dal regista Henning Brockhaus. Un’enorme parete-specchio resta inclinata in modo da formare un angolo di sessanta gradi rispetto al piano della scena. Teli dipinti distesi a terra come tappeti si riflettono a mo’ di fondali alle spalle degli attori, che dunque si lasciano osservare da un duplice punto di vista: sia secondo la prospettiva ‘orizzontale’ consueta, sia dall’alto mentre si aggirano sul/nel pavimento/scenografia. Lo sdoppiamento suggerisce l’opportunità di andare oltre l’apparenza e di cogliere la vera natura del mondo frivolo genialmente evocato dalla musica di Verdi; l’artificio produce inoltre un continuo spiazzamento visivo e percettivo, nel quale la moltiplicazione dei gesti si accompagna alla diffrazione dei significati drammatici. I tappeti-fondali fissano l’atmosfera di ciascun segmento rappresentativo: durante l’esecuzione della sinfonia, lo specchio rimanda l’immagine di un sipario abbassato, al centro del quale una fenice allude scopertamente al debutto veneziano della partitura nel 1853; nel primo atto lo status di Violetta viene evocato – un po’ brutalmente – con immagini di prostitute disegnate nello stile delle stampe popolari; nel secondo, a una casa di campagna seguono, nell’ordine, un prato fiorito (quando Germont intona «Pura sì come un angelo»), nuove figure di meretricio (quando Alfredo legge la lettera con la quale Violetta gli annuncia di voler tornare alla sua vecchia vita) e infine simboli sparsi di lussuosa mondanità (per il secondo quadro, con la festa in casa di Flora); nel terzo atto il pavimento nudo certifica il dissolversi di ogni illusione nell’imminenza dell’epilogo. Con una trovata di notevole impatto, negli ultimi momenti della vicenda e della rappresentazione, lo specchio viene issato fino a raggiungere una posizione perfettamente ortogonale rispetto al piano della scena; in tal modo esso riflette l’insieme degli spettatori presenti in sala, che si trovano ad ‘accerchiare’ l’agonia e la morte di Violetta. La tragica fine della traviata si impone dunque allo sguardo del pubblico senza mediazioni né edulcorazioni, acquistando un’evidenza scabra e dolorosa.
Visto il
21-04-2010
al
San Carlo
di Napoli
(NA)