Lirica
LA TRAVIATA

TRAVIATA LIGURE

TRAVIATA LIGURE

In un clima di forte tensione, l’ultima opera in cartellone a Genova va regolarmente in scena ma preceduta da un fuori programma. Davanti al sipario il direttore Fabio Luisi, attorniato da tutti i dipendenti del teatro, lancia un ultimo appello alle istituzioni: si è scelto di dimostrare in modo di non ledere i diritti del pubblico senza ricorrere allo sciopero dando, forse per l’ultima volta, una dimostrazione di qualità, ma quello che si prospetta è una scena vuota; non sembra esserci, né a Genova né in Italia, un futuro per opera e cultura. Segue la lettura di un comunicato dei sindacati, un durissimo atto di accusa nei confronti di CdA, Sovrintendente, Comune e Regione, tutti ugualmente responsabili dello stato di dissesto in cui si trova il Carlo Felice. Con quindici minuti di ritardo inizia lo spettacolo e offre l’altra faccia della medaglia, quella dell’eccellenza. Gli artefici di questa produzione sono tutti  liguri illustri che si sono affermati con la forza dell’impegno: Fabio Luisi, direttore principale del Metropolitan, Mariella Devia, che sullo studio ha costruito una lunghissima carriera, Francesco Meli, uno dei tenori più richiesti dalle scene internazionali.

Viene proposta la Traviata in un nuovo allestimento firmato da Jean –Louis Grinda, regista e direttore artistico dell’Opéra di Montecarlo, dove la produzione ha debuttato all’inizio dell’anno. Negli allestimenti moderni  il preludio, anziché essere eseguito a sipario chiuso come vorrebbe la tradizione, si presta spesso a nuove chiavi di lettura e qui commenta lo strazio di una squallida casa chiusa dalle pareti screpolate dove le prostitute si sottopongono alla visita del medico mentre attendono i clienti. Violetta è una di loro, distesa sul letto, colta dai primi segni della tisi. Al regista interessa dare una connotazione sociale della vicenda e, se pur l’immagine della visita medica disturbi, funziona che Violetta, come una merce qualsiasi, venga “scelta”  da Douphol e costretta a indossare sopra la guepière uno sgargiante abito da sera fucsia. Senza soluzione di continuità sul tema incalzante del primo atto le pareti del bordello si scostano e irrompe la festa dove Violetta, quasi fosse in un’arena, sembra essere data in pasto agli uomini per soddisfare i loro appetiti sessuali.
Il resto è risolto in modo più tradizionale con qualche caduta (Violetta e Alfredo che camminano sulle sedie per congiungersi nel brindisi, la sorella di Alfredo che appare muta dietro la finestra nel duetto) e intuizione (come ”Amami Alfredo” all’insegna dell’impossibilità, cantato a distanza con Violetta che retrocede per evitare un contatto).
Il regista sottolinea l’aspetto di mercificazione della donna nella società del tempo e anche la scena dei matadores si presta a mettere in scena una ballerina che altro non è che il doppio di Violetta che subisce i soprusi di uomini viziosi e che, con un lancio di sguardi, passerà il testimone a Violetta umiliata da Alfredo.
La scena del terzo atto riprende ciclicamente lo squallore del bordello iniziale e Violetta, nel suo andare incontro alla morte, troverà, oltre allo specchio, le prostitute del bordello ad applaudire la sua morte.
Se la regia può destare perplessità, funziona la scena di Rudy Saboungi che ricrea con gusto gli ambienti dell’epoca, pareti rosse con bassorilievi bianchi per la festa, una sorta di scatola tutta  boiseries e tappezzerie floreali per l’idillio del secondo atto. Sul soffitto una sorta di rosone a emiciclo dagli stucchi scrostati scandisce la vicenda rimandando all’immagine dell’arena e del conflitto.

Se pur grandi estimatori di Mariella Devia, riteniamo che il personaggio di Violetta non le sia del tutto congeniale. I limiti si avvertono nel primo atto che manca di autentica freschezza e, nonostante un canto  inappuntabile, la voce appare meno salda e  lucente nella tenuta degli acuti. Ma dalle prime battute del secondo atto si riconferma grandissima per un canto perfettamente cesellato,  dove dizione, fraseggio e  lirismo sensibile fanno il personaggio. Nel corso degli anni la cantante ha maturato il suo coté drammatico e si apprezza la sua moderna rappresentazione del dolore e del disinganno. Da manuale il malinconico  “Dite alla giovane” cantato tutto sul fiato, ma è in particolare l’Addio al passato, così amaro nei suoi pianissimi trattenuti, che scatena l’applauso del pubblico.
Il trionfatore della serata è stato Francesco Meli, apparso in gran forma e decisamente maturato da un punto di vista tecnico e interpretativo. La voce è quella di sempre, naturale e di grande comunicativa, ma si percepisce un pieno controllo del mezzo vocale, che,  perfettamente modulato, comunica, oltre allo squillo, anche le sfumature. Un Alfredo dalla perfetta dizione, capace di suadente lirismo e irruenza virile. 
Nonostante le buone intenzioni e un innegabile gusto interpretativo, delude il Germont  di Roberto Servile, la voce è apparsa appannata con evidenti difficoltà nel mantenere l’omogeneità della linea di canto. Buono tutto  il resto del cast, dei comprimari ci è piaciuto il Gastone di Enrico Salsi, Valeria Sepe è una Flora attraente, Paola Santucci un’Annina partecipe. Fra gli altri ricordiamo il Marchese d’Obigny di Claudio Ottino e il Dottore Grenvil di Christian Faravelli. Completano il cast Giampiero De Paoli (Giuseppe), Roberto Conti (il domestico) e Alessio Bianchini (Commissionario).

Coerente e sempre ben calibrata la direzione di Fabio Luisi, sensibile ai momenti di scarto drammatico e molto curata nell’accompagnamento delle voci. Sotto la guida del direttore genovese, che ha privilegiato la  qualità dell’esecuzione a una lettura più personale della partitura, l’orchestra è apparsa particolarmente precisa e puntuale. Di tutto rispetto anche la prova del coro. 

Spettacolo di livello, teatro pieno e grande successo di pubblico: basterà per andare avanti? Ce lo auguriamo, di cuore.

Visto il
al Carlo Felice di Genova (GE)