Venezia, teatro La Fenice, “La traviata” di Giuseppe Verdi
TRAVIATA IN VERDE (MA NON LEGHISTA)
La Fondazione veneziana ha ripreso lo spettacolo che nel 2004 ha inaugurato la Fenice ricostruita dopo l'incendio. In quell'occasione la partitura diretta da Lorin Maazel era quella della prima assoluta del 1853, mentre in questo caso è la versione, leggermente diversa, del 1854, che siamo abituati ad ascoltare ovunque.
La lettura di Robert Carsen è interessante ed emozionante, amara e senza illusioni, colpisce i sentimenti e l'intelletto e denuncia vizi e mali dell'oggi, dando l'impressione quasi di “spiare” la protagonista nella sua intimità. Viene rimarcato che è la storia di una prostituta e che al centro dell'azione c'è il denaro, sullo sfondo dell'ipocrisia di società svuotata di valori e fatua. La parola chiave è il binomio corpo – denaro, inteso come prestazione fisica - denaro. Infatti il denaro scorre a fiumi, è presente ovunque: nel preludio Violetta viene pagata dagli uomini del coro, nel bosco invece delle foglie cadono banconote dall'alto, Germont vuole pagare Violetta, ovviamente Alfredo paga Violetta, persino Annina paga il dottore nel finale.
L'ambientazione è contemporanea, come Verdi voleva prima degli intoppi della censura asburgica. Le scene e i costumi di Patrick Kinmonth situano l'azione sullo scorcio degli anni Settanta; negli arredi domina il colore verde scuro, un verde bottiglia di velluti ovattati esaltati dalle luci perfette dello stesso Carsen e di Peter Van Praet. Il primo atto ha luogo nella lussuosa suite di un albergo-bordello: durante l'ouverture Violetta è in negligé velato sul letto, una teoria di uomini le offre soldi in cambio delle sue prestazioni. Sullo sfondo, alla testa del letto, un poster con alberi di un verde che vira al giallastro. Gli arredi sono sontuosi, la luce scura. Alfredo è un giovane fotografo che immortala Violetta in ogni posa e da ogni angolazione e canta il brindisi suonando un bianco pianoforte. Violetta è una prostituta, si è detto: Carsen lo ribadisce, senza falsi pudori. Al punto da farla rimanere in guepière e giacere con il barone sul finale dell'atto, dopo che Alfredo se n'è andato.
Durante l'intervallo uno scambio di opinioni: questo è uno spettacolo che sprona a confrontarsi. Non siamo d'accordo con chi ha visto una tossicodipendente in Violetta. Il dottore, secondo noi, inietta un antidolorifico a Violetta, in quanto l'iniezione è una intramuscolare sul bicipite (senza laccio emostatico) e non una endovenosa: e Carsen è attento a ogni piccolo dettaglio, nulla è mai casuale.
Il secondo atto è ambientato in un bosco di alberi enormi di cui non si vede la cima, gli stessi prima alla testa del letto, sempre poster antinaturalistico, alberi che fanno apparire gli umani nella loro pochezza e piccolezza. Il pavimento è cosparso di banconote, un tappeto spesso e folto, mentre banconote piovono dall'alto. Banconote come foglie di ottobre in un autunno dell'anima, segnato dall'indifferenza alla sofferenza altrui.
Un colpo di teatro è il passaggio tra i due quadri del second'atto: il fondale di alberi si solleva rivelando un night club, dove dal fondo s'avanza una pedana che spinge i soldi sul pavimento come una ruspa. Azzeccato il balletto, affidato a cow-girls e a ragazzotti seminudi stile California Dream Men.
Struggente il terzo atto, ambientato sempre nella suite 1206, che ora però è in restauro: completamente vuota, solo un'impalcatura (un “castello” da imbianchino), secchi di vernice, sacchi di cemento, mucchi di cellophane, la tappezzeria parzialmente staccata, un televisore acceso che rimanda il segnale grigio di fine trasmissioni. Violetta è a terra, sul pavimento, in sottoveste e tacchi alti. Arriva il dottore, altra iniezione di antidolorifico, poi viene pagato da Annina (altro che “buon amico”: non si fa nulla se non per soldi). Si spalanca la grande porta, al piano si svolge una festa: un gruppo di giovani entra, si festeggia; alcuni, giocando, strappano un tendone attaccato alla parete, rivelando gli ultimi frammenti del poster con gli alberi. Ma non si accorgono di Violetta morente a terra. L'indifferenza totale. Fino al punto che, appena morta Violetta, entrano in scena un geometra ed alcuni operai per continuare i lavori, uno si accende una sigaretta, un altro porta bidoni di vernice, altri scrutano le pareti da ritinteggiare. La morte che non fa più notizia.
Myung-Whun Chung dirige con grande bravura l'orchestra della Fenice, i tempi sono allargati per consentire una grande precisione agli strumenti e soprattutto al suono di uscire cesellato, nitido, leggero. Gli archi a momenti sono inscuriti con grande effetto emozionale. La concertazione dimostra il lavoro accurato su ogni singolo spartito per ottenere trasparenze e, al tempo stesso, profondità e spessori sonori.
Qualche imprecisione non ha scalfito una buona esecuzione del coro, preparato da Claudio Marino Moretti.
Patrizia Ciofi è stata Violetta anche nel 2004, una Violetta matura con qualche difficoltà vocale che però non appanna un personaggio carismatico che si impone sulla scena con notevoli doti attoriali, crescendo di atto in atto fino a un finale da commozione.
Vittorio Grigolo sembra nato per questo spettacolo, è perfetto per il ruolo di un Alfredo giovane e spavaldo, un fotografo in jeans e maglietta neri e col giubbotto di pelle, nel terzo atto ingessato in un abito con cravatta (qui tutto è oramai cambiato, irreparabilmente). Vocalmente Grigolo è sorprendente, la voce è bella, potente ma controllata e bene usata, rivelando passione e ardore giovanile, collera e veemenza.
Vladimir Stoyanov ha la bella voce che conosciamo e la prestazione è intensa; un Germont “borghese” in giacca antiquata, un cinico che pensa che coi soldi si possa risolvere tutto, conoscendo egli “il prezzo di tutto e il valore di niente” (così nelle note di regia contenute nel libretto di sala).
Bene gli artisti di fianco: Annika Kaschenz (Flora), Elisabetta Martorana (Annina), Iorio Zennaro (Gastone), Elia Fabbian (barone), Luca Dall'Amico (dottore), Matteo Ferrara (marchese), Ciro Passilongo (Giuseppe), Claudio Zancopè (domestico di Flora) e Antonio Casagrande (commissario). Da rilevare, nel ruolo del dottore, che questi porta con sé una valigetta da manager e non da medico, aprendo la quale esibisce, oltre gli strumenti della medicina, un grande fascio di banconote.
Teatro gremito, molti applausi, pubblico coinvolto e convinto in una domenica in cui a Venezia i manifestanti della Lega Nord, anch'essi di verde vestiti, avevano scritto sulle magliette “Padania is not Italy”.
Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 13 settembre 2009
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
La Fenice
di Venezia
(VE)