Alla Scala, dopo la Traviata “di rottura” di Dmitri Tcherniakov nel 2013, si ritorna al “classico“ con la produzione voluta da Riccardo Muti nel 1990 e affidata alla regia di Liliana Cavani. L’allestimento è stato spesso riproposto nel corso degli anni con cast diversi ma solo nell’attuale ripresa, con Anna Netrebko nella parte della protagonista per sole tre recite, la produzione di repertorio diventa uno degli eventi da non mancare sulla scena internazionale.
Partiamo quindi proprio da Anna Netrebko che, proprio con il ruolo di Violetta a Salisburgo nel 2005 nella fortunata produzione di Willy Decker, assurse al ruolo di star della lirica. Sono passati diversi anni, la voce è diventata decisamente importante, ma anche la donna è cambiata nel fisico e nell’animo: più “piena” (ma non meno bella) e soprattutto più riflessiva. Anna Netrebko, una delle cantanti-attrici più straordinarie della storia dell’interpretazione recente, ha espressamente voluto misurarsi con Traviata prima dell’addio al ruolo in una produzione classica e old-fashioned per dimostrare a tutti che, prima di essere un fenomeno mediatico, è una grande cantante, anzi la migliore, e lo fa proprio alla Scala, dove l’opera, dopo l’era Callas, fu a lungo un tabù. Il primo atto, considerate le doti sceniche della diva, risulta un po’ convenzionale dal punto di vista interpretativo. Ma dove è finita l’irresistibile Violetta di Salisburgo tutta impeto e istinto? Questa Traviata riflette dunque un cambiamento ma soprattutto rappresenta per la cantante una sfida: vincere a partire dal canto davanti a un pubblico notoriamente esigente con una voce giudicata a priori “troppo pesante per il ruolo“. La Netrebko è una grande professionista e dimostra assoluto controllo del mezzo importante che smorza in splendidi pianissimi e fa espandere in acuti saldi e luminosi. Rispetto a passate interpretazioni si avverte un maggiore dominio del legato ma anche della parola, più rifinita e pregnante, e non a caso la lettura della lettera nel terzo atto, pagina estremamente insidiosa, è un capolavoro d’intensità e interpretazione. La cantante risolve con intelligenza ogni insidia, attaccando le note nel modo giusto; noi l’attendiamo al varco per coglierla in fallo nelle colorature di Sempre libera ma supera la prova e regala ai trilli una tale pienezza che lascia estasiati. La voce non ha uguali per bellezza timbrica, omogeneità e proiezione, ma soprattutto è immensa e “stereofonica”, capace di espandersi in ogni anfratto della sala del Piermarini anche quando, con un certo compiacimento, canta volgendoci le spalle. Se il primo atto serve, soprattutto a se stessa, a ratificare lo status di grande cantante, a partire dal secondo s’impone per talento drammatico: nel duetto con Germont, condotto con sensibilità istintiva, si apprezzano l’uso dei pianissimi e un canto sulla parola insolito per una slava; ma è soprattutto l’Addio al passato lucido e straziante, di una modernità assoluta, che scatena l’entusiasmo del pubblico. E Anna Netrebko, nonostante detrattori e invidiosi, per il piacere che ha regalato, merita tale trionfo.
Francesco Meli ha per natura una voce ideale per Alfredo: il timbro solare e mediterraneo, la perfetta dizione, la proiezione e lo squillo; col tempo ha lavorato anche sul piano interpretativo e risulta assolutamente perfetto nel ruolo e gli perdoniamo qualche difficoltà nella cabaletta (probabilmente imputabile alla stanchezza dovuta all’avere affrontato di recente un ruolo forse troppo impegnativo, Don Carlo). Leo Nucci ripropone ancora una volta uno dei suoi ruoli verdiani di elezione: il suo Germont è credibile e aristocratico ed è tuttora cantato benissimo in quanto la voce è ferma e perfettamente intonata ma manca ormai un po’ di “sostanza” e la sua interpretazione, al di là della stima e dello stupore considerata l’età, lascia un po' indifferent. Adeguati i comprimari: la Flora di Chiara Isotton, il Barone di Costantino Finucci, il Marchese d’Obigny di Abramo Rosalen e il Gastone di Oreste Cosimo. Concludono adeguatamente il cast la giovane Chiara Tirotta (Annina) e Andrea Spina (il Dottor Grenvil).
In una Traviata all’insegna della tradizione, la direzione musicale è affidata a Nello Santi, direttore esponente della vecchia scuola che dirige a memoria senza spartito e offre una lettura dai tempi decisamente lenti, per non dire letargici, che nuocciono, soprattutto nel preludio e nel primo atto, alla drammaturgia e alla componente “nervosa” e sottile della partitura. La direzione di Santi però è coerente e ha il grande merito di favorire al massimo la prova della Netrebko, messa nelle condizioni ideali per gestire correttamente linea ed emissione, dando la possibilità alla voce di espandersi in modo così suggestivo.
La produzione con regia di Liliana Cavani, scene di Dante Ferretti e costumi di Gabriella Pescucci propone un’idea di teatro musicale ormai obsoleta alla luce delle regie che negli ultimi vent’anni si sono confrontate con Traviata. Lo spettacolo, sontuoso e raffinato, sfrutta al massimo la profondità di campo del palcoscenico ma non dice nulla dal punto di vista drammatico e lo scavo psicologico rimane in superficie, soffocato da velluti e crinoline. Convenzionale la recitazione, prevedibile e statico il movimento scenico, con inutili controscene che, anziché aggiungere significati, risultano banali o superflue. Ogni dettaglio è preciso come in un set cinematografico ma dietro la rappresentazione esteriore, peraltro gradevole e non polverosa, non rimane nulla. A parte il canto. Ed è proprio alla fascinazione del canto che si deve l’entusiasmo di un pubblico in delirio: erano anni che non si percepiva alla Scala una tale partecipazione da parte di tutti i settori e Traviata -come direbbe Violetta - “ritorna a vivere .. oh gioia!”.