Lirica
LA TRAVIATA

Uno specchio a cavallo di due secoli

Uno specchio a cavallo di due secoli

La traviata “dello specchio” è uno di quegli allestimenti entrati ormai a far parte della storia del teatro, così ricchi di fascino e buon gusto da risultare ancora smaglianti dopo più di vent’anni dalla loro ideazione. La scenografia, pensata da Josef Svoboda nel 1992 per il palcoscenico dello Sferisterio di Macerata e poi riadattata per teatri al chiuso, consiste in una serie di teli dipinti appoggiati a terra che vengono via via sfilati da assistenti di scena e che si riflettono su un grande specchio inclinato così da creare l’effetto di un fondale. Si parte con la visione di un enorme sipario, subito sostituito da immagini raffiguranti cortigiane più o meno discinte, ben caratterizzanti l’intero primo atto; il disegno di una casa di campagna, un immenso prato di margherite e una serie di quadri effigianti immagini di borghesi in abiti eleganti fanno a loro volta da sfondo al ritiro in campagna della coppia; uno splendido lampadario di cristallo e un ampio portale dorato dominano, da ultimo, il momento della festa a casa di Flora. Tutto muta durante il terzo atto in cui il semplice assito nero del palcoscenico riflesso nello specchio funge da simbolo di povertà e morte imminente. Di innegabile efficacia scenica, sebbene inferiore rispetto all’effetto ottenuto allo Sferisterio dotato di spazi enormi e di un meraviglioso colonnato, il momento della dipartita della protagonista in cui lo specchio si alza in verticale così da riflettere platea e palchi gremiti di spettatori.

Attenta al particolare la regia di Henning Brockhaus. Sebbene complessivamente apprezzabili, i costumi pensati da Giancarlo Colis hanno, invece, talvolta la tendenza ad indulgere un po’ troppo a far bella mostra di poco allusivi reggicalze e di velate trasparenze così da inficiare almeno in parte l’eleganza complessiva dell’allestimento. Piuttosto semplici e di non particolare originalità le coreografie curate da Valentina Escobar.

Francesca Dotto è una giovane Violetta dalla voce un po’ sottile, ma dalla notevole intensità espressiva e interpretativa, palpabile soprattutto nei momenti lirici e drammatici più che in quelli strettamente belcantistici; il registro centrale è pieno e corposo, le agilità sono precise, davvero coinvolgente l’esecuzione dell’Addio del passato. Al suo fianco l’irruente Alfredo di Antonio Poli, dotato di uno strumento non enorme ma dal timbro gradevole, impiegato con una tecnica precisa che gli consente di avere il suono sempre ben in maschera: un’esperienza maggiore gli concederà certamente di operare qua e là qualche ulteriore aggiustamento interpretativo, così da permettergli di cesellare al meglio questo non facile ruolo. Davit Babayants è un Giorgio Germont dal timbro vagamente nasale, caratterizzato però anche da piacevoli bruniture: scenicamente la figura è leggermente statica e vocalmente l’interpretazione, sebbene complessivamente più che corretta, risulta un po’ priva di dinamiche e colori. Davvero scarsamente a fuoco la poco udibile Flora di Elena Serra e l’Annina di Alice Marini. Con loro Gianluca Breda (Dottor Grenvil), Antonello Ceron (Gastone), Nicolò Ceriani (Barone Douphol), Francesco Pittari (Giuseppe), Romano Dal Zovo (Domestico e Commissionario).

Direzione corretta, ma senza guizzi particolari, per Marco Boemi: qualche eccessiva dilatazione dei tempi non ha particolarmente favorito cantanti e coro, così da causare qualche attimo di leggero sfasamento. Buona la prova del Coro dell’Arena. Teatro piacevolmente gremito; pubblico caldo e prodigo di applausi a fine spettacolo e a scena aperta.

Visto il
al Filarmonico di Verona (VR)