Lirica
LA TRAVIATA

VIDEORITRATTO DI VIOLETTA

VIDEORITRATTO DI VIOLETTA

Un piacere vedere sui cartelloni del San Carlo la dicitura “esaurito” per le recite di questa Traviata che inaugura la stagione in occasione delle celebrazioni per il bicentenario della nascita di Verdi e Wagner e che a Napoli trova in calendario anche Rigoletto e l’Olandese volante. Sicuramente motivo di richiamo la regia di Ferzan Ozpetek, uomo attento ai sentimenti e alle diversità, premiatissimo al cinema e alla seconda esperienza con la lirica dopo l’Aida al Maggio Fiorentino, sempre con le scene monumentali di Dante Ferretti e i costumi sfarzosi di Alessandro Lai.

La vicenda viene spostata in avanti negli anni Dieci del Novecento in atmosfera proustiana, decadente, orientaleggiante. Invero nel 1910 sono passati anni dal “pieno” decadentismo e dall’orientalismo, di cui restano probabilmente solo la dimensione estetica ed esteriore, e lo spettacolo volutamente registra un velo di tristezza e di irrecuperabilità del tempo perduto che è la cosa maggiormente apprezzabile.
Colpisce in pieno il cuore degli spettatori il videoritratto di Violetta (ne è autore Luciano Romano e un fotogramma pregnante è a pagina 42 del programma di sala) che campeggia enorme sul boccascena durante la sinfonia. Carmen Giannattasio è in primissimo piano, un taglio cinematografico emozionante che ne riprende il volto quasi immobile, gli occhi malinconici, pieni di una tristezza incolmabile, la mano che lentissimamente scende e sparisce alla vista. Straziante, commovente. Capace da solo di caratterizzare lo spettacolo.
Poi la festa ha inizio e pare incongrua nel suo lusso, incurante di quel che passa nel cuore di Violetta. Una festa ambientata in un salone orientaleggiante in ogni dettaglio, dall’arredo agli oggetti alle decorazioni, un gusto che non pare alla moda ma l’ultimo baluardo di un mondo che sta sparendo e che corre il rischio di trascinare con sé le persone che vi abitano e che si ostinano ancora a vivere con quelle certezze che in verità non sono più tali. Violetta si muove quasi impaurita, una padrona di casa perfetta ma che agisce con cautela. Così il cedere ad Alfredo pare davvero un atto di coraggio immenso. E i dubbi si ingigantiscono.
Il secondo atto è all’aperto ma l’orizzonte è chiuso da un altissimo muro, un hortus conclusus (anche qui con richiami all’Oriente) che evidentemente non ha in sé i motivi per essere felici e vivere bastevoli di se stessi, uno spazio a cui si accede da un cancello sui cui pilastri campeggiano le mezzelune islamiche. Spazio che resta lo stesso per la festa in casa di Flora, dunque ancora all’aperto, ma, in questo caso, uno scalone sullo sfondo che si perde nel nulla della notte e pare infinito, illuminato da pallidi globi.
Dopo lo sfarzo dei primi due atti, nel terzo il vuoto assoluto ma significativo: solo il letto di Violetta nel buio con luce bianca dall’alto. Fondamentali per il risultato le luci di Giuseppe Di Iorio, soprattutto nel primo quadro del secondo atto (il trascorrere delle ore con il lento scivolare verso un crepuscolo inteso come il tramonto di un’epoca) e nel terzo atto, quando consentono la materializzazione dei sogni/incubi di Violetta.

Michele Mariotti, uno dei più promettenti direttori giovani, dimostra con questa Traviata una grandissima maturità. I tempi sono allargati per consentire al suono di spiegarsi indagando ogni piega della partitura con un senso basilare di “crepuscolo”. Mariotti sperimenta negli archi originalità e aristocratica raffinatezza, restando comunque nel solco della tradizione. Una rara corrispondenza con l’idea registica per una Traviata che esprime anche musicalmente la decadenza di un’epoca e di una vita, la nostalgia per quel che è ormai al tramonto e che è impossibile trattenere, pur sapendo che la vita sarà impossibile altrimenti. Una velatura crepuscolare che descrive in modo emozionante un tempo ormai perduto nella consapevolezza che ogni ricerca sarà vana.

Monica Tarone sostituisce all’ultimo minuto (e con grande sorpresa per gli spettatori) l’indisposta Carmen Giannattasio; il soprano non ha effettuato le prove dello spettacolo e dunque il giudizio sulla parte attoriale resta sospeso ma vocalmente è sicura, soprattutto in secondo e terzo atto, considerate le agilità non strepitose come invece i colori successivi che esprimono un’intensa forza emotiva. Saimir Pirgu è un Alfredo giovane e impetuoso che attacca spesso con piglio giovanile ma ben conosce le morbidezze quando sono necessarie. Convince Simone Piazzola, giovanissimo ma autorevole Giorgio Germont: i duetti del secondo atto sono perfetti.
Giusti tutti i ruoli di contorno: Giuseppina Bridelli (Flora), Michela Antenucci (Flora), Federico Lepre (Gastone), Nicolò Ceriani (Barone), Alessandro Battiato (Marchese), Gianluca Breda (Dottore). Con loro Giuseppe Valentino (Giuseppe), Sergio Valentino (Domestico di Flora), Carmine Durante (Commissionario), le zingarelle Elisabetta Magliulo, Roberta De Intinsi e Maura Giordana, i matadores Edmondo Tucci, Fabio Gison e Marco D’Andrea e il coro preparato da Salvatore Caputo.

Teatro esaurito, come si diceva; pubblico tiepido durante la recita ma moltissimi applausi alla fine. Il programma di sala contiene un enorme numero di foto dello spettacolo, racconto completo per immagini di un allestimento che rende in foto come pochi altri. Lo spettacolo è coprodotto con la Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari. 

Visto il
al San Carlo di Napoli (NA)