La vecchia - Commedia malincomica è un testo di Rita Frongia affidato in scena a Marco Manchisi e Stefano Vercelli, e fa parte di quella che è stata definita una trilogia del tavolino.
La vecchia - Commedia malincomica è un testo di Rita Frongia affidato in scena a Marco Manchisi e Stefano Vercelli, e fa parte di quella che è stata definita una trilogia del tavolino (insieme con La vita ha un dente d'oro e Gin gin), per l'elemento comune intorno al quale si dispiegano le vite narrate, su cui si aprono finestre visionarie che hanno bisogno di una presenza particolarmente viva, non solo di parole adeguate ma soprattutto di organismi che lottano per motivi superiori: di attori che ne siano la carne e il selciato su cui farla camminare.
Cuciti addosso
Ed accade raramente che due caratterizzazioni vengano perfettamente costruite su due attori/personaggi precisi, come questo è il caso, due lottatori per scoprire e modellare una luce in fondo alla pagina che ancora non c'è, e non sanno se ci sarà.
Più che un teatro di parole, ci troviamo dinanzi a un teatro di domande. E del resto di fronte alla morte, che altro farsi se non domande? Quelle del poeta riguardano l'arcano della sua sofferenza, quelle del probabile mago sembrano inscritte nella mente del cliente, dalla quale tirarle fuori come per una operazione maieutica.
Il mago e il poeta
Con un volto proveniente dalle pietre delle sue esperienze, dall'Odin Teatret di Eugenio Barba e dal Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, fra sedimenti di Arthur Rimbaud e Gioacchino Belli, Stefano Vercelli è un vecchio indovino, un chiaro-scuroveggente che attraverso le sue intonazioni romanesche e le sue rughe disegnate su ciottoli polverosi (o lignei...) rivela nelle visioni la traccia mnestica del suo passato, come fosse obbligato ad ammantarne ogni aspetto del presente, non solo il suo già bruciato ma anche quello di chi lo interpella.
Le sue carte non sono i tarocchi della tradizione, e la Vecchia non è quell'Arcano Maggiore numero 13 che le marsigliesi evocano senza pronunciarne il nome; di esso conserva soltanto il memento mori immanente, perché le sue carte sono invece le fotografie della memoria, quelle che l'Avventura ha impresso nelle immagini in bianco e nero con una precisione intatta, impossibile da dimenticare e dalla quale non può prescindere più.
E' anche per questo che sulla scena l'arte dell'improvvisazione appartiene a Vercelli in maniera così connessa al personaggio, come quando offre al pubblico la dichiarazione della sua esistenza naturale attraverso lo strumento divinatorio.
Altrettanto specifico è il lavoro di Marco Manchisi, con il suo tratto fortunato disegnato fin dalle esperienze con Antonio Neiwiller e Leo de Berardinis: una poetica d'avanguardia interiore, con forti germi provocatori, che messa al fianco di Stefano Vercelli forma un assieme combinato che sembra soddisfare le rispettive esigenze ed espressioni, con gli appoggi ed un contatto che si avvertono nella presenza e nel buio, nella comune attesa dell'altro e nella diversità di aspirazioni esistenziali.
Frammenti di luce
Nei frammenti alternati di racconto, cadenzati dalla luce, chiara manifestazione esperienziale è inoltre il rito del Palo Santo, elemento chiave dei rituali religiosi e spirituali degli sciamani Inca e amazzonici, e sublimi sono i momenti in cui l'essenza di un loro gesto diventa comicità oppure umorismo in sé, anche quando slegato da qualsivoglia filo conduttore. Capacità non comuni che vanno sottolineate, come infatti anche la scrittura fa, concedendo loro di instradarsi su un difficile e vago cammino che sembra non avere una direzione, sempre in attesa di essere compiuto e risolto attraverso un atto creativo che riveli l'armonia.