Improbabili ballerini con ginocchiere e calze a rete rammendate, un trionfo di piume di struzzo e di simulato dilettantismo, un presentatore incerto che accoglie la platea: prende vita in un'atmosfera che vuole essere decadente, il grande circo de La Verità, fornendo in abbrivio un senso che resterà forse il principale elemento comune fino in fondo, a unire le parti: il disvelamento, quell'ingranaggio della verità per il quale "tutto qui è fatto di cartone e cartapesta, qui non soffriamo davvero”, e “tutto quello che faccio è perché tu sia orgoglioso di me”. E' la verità del far vedere quello che sta dentro, in mezzo e dietro la scena, sia essa l'artificio di coloro che azionano le macchine, oppure i sentimenti stessi di chi agisce, attraverso l'esibizione spinta della propria gioia di esprimersi in questo modo, e quindi ricercando spesso anche platealmente l'applauso, il consenso, la giustificazione della propria esistenza sia in quel luogo, sia nella propria stessa vita.
Lo spunto dello spettacolo proviene da un telero scoperto nei sotterranei del Metropolitan di New York: chiuso dentro una cassa di legno, era stato dipinto da Salvador Dalí come fondale per il balletto Tristan Fou, una versione surrealista del tema di Tristano e Isotta di Richard Wagner (tema ricorrente, del resto: Dalì e Gala furono considerati la versione moderna dei due celebri amanti medioevali, e la musica di quell'opera fu l'ultima che ascoltò Dalì prima di morire per un attacco cardiaco). Una rarità enigmatica ed imponente (misura 9x15 metri), rubata anche dai nazisti, che appartiene oggi alla Fondazione Dalí Figueras e che nel 2010 a Daniele Finzi Pasca ispirò questo lavoro.
Se l'autore svizzero ha concesso di recente allo spettatore momenti in cui il suo teatro della carezza ha lasciato tracce di incantesimo anche grazie alla sua drammaturgia, qui ci si trova di fronte ad un altro genere, altra riflessione, altro desiderio creativo, sebbene di questa matrice resti una presenza in termini di leggerezza: sovente, le contrapposizioni fra levità ed intensità si esprimono in modo convincente, come quando un acrobata esegue esercizi difficili mentre la carta velina vola intorno ed un cantante affronta una dolce melodia, ma l'accento, nel quadro complessivo, si posa in prevalenza su di una certa quantità di "numeri" eseguiti con perizia notevole (tanto da guadagnare per 39 volte gli applausi durante le esecuzioni, un numero che fa riflettere, perché è indice anche della previsione registica sulla focalizzazione dell'attenzione richiesta allo spettatore, che si posiziona altrove rispetto ad una vera e propria forma di narrazione), e di circense c'è soprattutto l'atmosfera, con abiti dimessi, acrobati che si esercitano, complicità e rivalità, sguardi di intesa o di invidia fra i dodici protagonisti.
Toreri, intermezzi clowneschi, esibizioni che mettono insieme un gioioso tributo alle arti ed ai talenti legati soprattutto all'espressione del fisico (ed il numero del contorsionista con il manichino mosso da quattro manovratori "visibili" merita di assurgere a simbolo di tanta delicatezza), una pioggia di tappi di sughero, macchine sceniche e figure, un delizioso risuonare di bicchieri ed un finale in crescendo ai ritmi della belle époque di Offenbach: dell'idea iniziale su Dalì, oltre a soffioni e bastoni ricurvi come elementi di scena, c'è forse anche l'eco di quel progetto di liberazione creativo che a partire da André Breton si oppose alla visione positivista borghese, oltre alla presenza, all'epoca non bene intesa, di uno spirito surrealista che affermava visioni irrazionali ed utilizzava gli oggetti al di fuori del loro contesto abituale, per cristallizzare nel quotidiano associazioni inconsce, qui ricordati anche con una piacevole ironia ("a volte una cosa sembra brutta... ed invece è solo contemporanea!").