Parlare dell'Odin Teatret di Eugenio Barba nell'angusto spazio concesso dalla forma-recensione è un po' come assistere a un suo spettacolo senza conoscere nulla del suo percorso di ricerca creativo.
Un percorso di ricerca che ha radice in una pratica di teatro che dura da quasi 50 anni e che nel caso de La vita cronica, che ha avuto una gestazione durata 4 anni, si interroga proprio sul senso della fine, quella di un collettivo teatrale segnato dall'incedere dell'età dei suoi componenti, recentemente segnato dal lutto.
All'ingresso in teatro, quando scendendo la platea digradante del teatro Vascello per salire direttamente sul palcoscenico, dove è allestito lo spazio in cui pubblico e attori e attrici prendono posto, viene distribuito al pubblico un foglio nel quale l'Odin dà alcune coordinate narrative.
Ma è proprio necessario conoscerle?
Come ha fatto, in questi quasi 50 anni, un gruppo di diverse provenienze geografiche come l'Odin a conciliare le diverse lingue parlate dai sui componenti con quella di un pubblico che spesso capisce una lingua che non è quella di nessuno e nessuna degli attori e delle attrici in scena?
La soluzione non va cercata nella rinuncia al testo o alla parola, quanto dare piuttosto importanza all'attore che la dice, all'attrice che la interpreta, mentre restituiscono entrambi un gesto, cantano e suonano una canzone, compiono un movimento, si relazionano teatralmente con un oggetto, con uno strumento musicale (che tutti e tutte suonano) elementi che fanno parte del lavoro quotidiano dell'attore e dell'attrice dell'Odin, elementi che possono diventare spunto di partenza per qualcosa che andrà a formare lo spettacolo, com'è raccontato nello splendido e prezioso programma di sala - venduto al prezzo politico di 3 euro - nel quale, tra fotografie e schemi, si pososno leggere il diario degli e delle interpreti e le loro impressioni nell'arco di gestazione dello spettacolo.
Proviamo allora a vedere lo spettacolo vergini, senza leggere le coordinate narrative che ci son state distribuite.
Proviamo a barcamenarci con le lingue di un testo che capiamo direttamente poco ma del qual sempre ci è chiara l'intenzione, l'intensità, il lavoro di ricerca.
Tralasciamo la nostra memoria personale che ci fa riconoscere quella piuttosto che quell'interprete storico dell'Odin (nel nostro caso Iben Nagel Rassmussen) e concentriamoci su quanto accade in scena.
Uno spazio rettangolare nel quale, sui lati lunghi, è disposto il pubblico, che si fronteggia, mentre al centro un tavolato di assi di pino delimita lo spazio scenico sopra il quale una pedana, una sorta di zattera, costituisce e delimita un dentro e un fuori.
Ai due lati corti ci sono due costruzioni in una delle quali è sistemata la cabina di regia mentre l'altra costituisce una ulteriore stazione scenica, una sorta di altare dove vengono appesi (letteralmente, a dei ganci) alcuni oggetti dopo il loro uso.
L'azione scenica presenta diversi personaggi - per i quali e le quali il genere di appartenenza non coincide necessariamente con quello dell'interprete - che ci raccontano una vita di lutti, di migrazioni, di disoccupazione, di mariti e figli, lavati e seppelliti, di donne che ricordano il primo incontro col marito poi partito per il fronte, dove figli cercano il padre disperatamente, mentre approdano alla pedana come si approda dal mare a una zattera proprio come succede quando si raggiunge la frontiera di uno Stato (quello danese la bandiera inconfondibile del quale alla fine copre la pedana) mentre si manipolano oggetti di scena, del ghiaccio, acqua solidificata, che in tempi di guerra è un bene prezioso, pietre, padelle, elmetti usati a mo' di secchio, mentre donne gettano e manipolano monetine, quelle di rame dei centesimi d'euro, e tante tantissime carte da gioco, usate come moneta di scambio, come fotografia dei cari dispersi, come icona.
Uno spazio scenico nel quale questi personaggi interagiscono con l'ausilio della musica e e della canzone suonata da un vecchio rocker uscito da un film di Kusturica o di Kaurismaki, dove lo scarto tra quanto evocato da queste vite precarie - che non hanno conosciuto il lusso di una crisi economica vivendo in una crisi di guerra e morte continua - e il fatto che siamo in un teatro ad assistere a uno spettacolo si staglia rimandandoci senza ritegno il nostro status di ricchi e ricche assediati e assediate da un mondo altro senza alcun punto in comune che non sia il privilegio economico.
Nel suo dipanarsi lo spettacolo prende la forma di un confronto, di uno scambio, di un baratto tra radici culturali diverse nell'alterità delle quali è facile individuare gli imprestiti e i tratti comuni antichi dei popoli, che il pubblico, oltre il superficiale esotismo, coglie poco, ma che nella drammaturgia si radicano in una ricerca profonda sui personaggi fatti nella vita e nell'esperienza degli e delle interpreti, della quale al pubblico giunge chiara l'energia nonostante tutto ludica della vita, quell'oscena resistenza organica che fa vivere nonostante tutto, non importa quali siano le condizioni precarie la cui marginalità è anche quella di una biologia che si sfalda e che ci conduce tutte e tutti inevitabilmente verso la morte, loro come noi.
La rappresentazione di diverse vite allestite in uno spazio scenico spoglio che ha nella concreta capacità performativa dei e delle interpreti il correlativo oggettivo di un altrove vissuto cui lo spettacolo allude in ogni momento.
Aggiunge poco dunque leggere, nelle note di sala che ci sono state date, che la scena si svolge contemporaneamente in Danimarca e in altri paesi d'Europa, nel 2013 dopo la terza guerra civile, o che i personaggi sono una Madonna nera, la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un musicista rock delle isole Faroe, un ragazzo colombiano che cerca suo padre scomparso in Europa, una violinista di strada italiana e due mercenari la cui presenza sanziona una certa indifferenza del mondo alle violenze subite.
Quel che importa è proprio quello che ogni persona del pubblico sa cogliere di un discorso scenico che non ha eguali nel panorama teatrale occidentale e che propone un sincretismo culturale e drammaturgico che, muovendo tra guerre e disoccupazione, si fa testimone di un racconto che spesso non arriviamo a sentire perchè le voci che lo fanno vengono fatte tacere, anche in modo cruento, come quelle di Anna Poliktovskaya e Natalia Etemirova, le scrittrici russe assassinate dai sicari nel 2006 e 2009 per la loro opposizione al conflitto ceceno, cui lo spettacolo è dedicato.
Un discorso in cui la mancanza, la guerra, la privazione e la morte diventano il confronto con la fine che si prospetta all'orizzonte, la fine di una esistenza, o di un gruppo teatrale, per raggiunti limiti d'età, che cerca nella gioventù quello stesso segno di precarieàt che ci caratterizzat tutte e tutti.
Una giovinezza che costituisce la soluzione per il finale, la cui mancanza attanagliava lo spettacolo facendolo accantonare per qualche tempo, la cui forza e significato non risiede nell'innocenza o nella conoscenza del giovane che sopravvive propri perchè non sa - una non consocenza simbolizzata dagli occhi bendati dei due personaggi giovani - che permetterà al giovane in cerca del padre di aprire la porta la cui chiave viene inutilmente mostrata per tutto lo spettacolo e che solo il non sapere - proprio come quello del pubblico dinanzi questo allestimento - permette di aprire.
Alla fine il pubblico applaude una scena vuota e attende invano il rientro degli attori e delle attrici che - essendo personaggi e non interpreti - non rientreranno a prendersi gli applausi lasciando ognuno e ognuna di noi con la curiosità di cercare una risposta e, forse, anche una domanda.
Dopo il debutto romano al Teatro Studio dell'Auditorium lo spettacolo ha ripreso le repliche il 27 febbraio al Teatro Vascello dove vi resterà fino a Domenica 17 Marzo.
Un'occasione da non mancare, assolutamente.