Prosa
LA VOCE UMANA/IL BELL'INDIFFERENTE

L'<i>oltre</i> di Adriana Asti

L'<i>oltre</i> di Adriana Asti

La voce umana è un monologo difficile non solo da interpretare ma anche col quale misurarsi.
Chi lo mette in scena,  così come chi lo interpreta, non può sottrarsi dal confronto con le numerosissime edizioni con le quali, dal suo debutto in Francia nel 1930, il testo di Cocteau è stato portato sulla scena con uno stile e un approccio -, da quello drammatico e  patetico (nel senso neutro di suscitare emozioni) di Anna Proclemer a quello più mesto e raccolto ma altrettanto vissuto di Ingrid Bergman - tanto per citare i primi che vengono in mente - che sono divenuti nel tempo un vero e proprio canone. Un canone al quale si cerca di reagire affrontando e sviscerando il testo in ogni suo possibile elemento, con le chiavi di lettura le più diverse, comprese, recentemente,  una messinscena tutta al maschile e una che invece di mostrare la protagonista vessata dall'egoismo maschile ne fa una mitomane con la vocazione allo stalking,

Il monologo è incentrato su una lunga telefonata a più riprese, tra interruzioni e interferenze, durante la quale la protagonista si accomiata definitivamente dall'uomo col quale ha intessuto una lunga storia d'amore che già dall'inizio  sapeva sarebbe finita (l'uomo si sposa con un'altra); uomo del quale non sentiamo la voce, per cui la conversazione della donna diventa, per il pubblico che vi assiste, un monologo e lo spettacolo stesso la metafora di una presenza che si sta sottraendo.

Benoit Jacquot, alla sua prima regia teatrale (ma ha diretto già diverse opere), mette in scena La voce umana  con qualche taglio leggero in modo da abbinarlo, senza soluzione di continuità, con Il bell'indifferente, un altro monologo di Cocteau meno dato, nel quale, al contrario che ne La voce umana, l'uomo, giovane e bello (interpretato generosamente, visto che non ha nemmeno una battuta, da Mauro Conte), cui la donna si rivolge, è fisicamente presente nella stanza (su letto, legge il giornale e s'addormenta).

Lo sguardo esegetico col quale il regista accomuna i due testi è quello della solitudine cui queste due donne sono condannate da un amore per l'uomo che non è mai un loro pari, o perchè bugiardo e vigliacco (La voce umana), o perchè (le espressioni del viso di Conte non lasciano dubbi al riguardo) indolente, egoista e sicuro di sé (Il bell'indifferente).

La regia di Jacquot si concede molto poco (durante il veloce cambio di scena tra i due testi Adriana Asti  scende in platea e osserva l'alacre lavoro sul palco seduta in prima fila) ponendosi in maniera obliqua senza proporre né un approccio filologico al testo - dati alcuni tagli e un insistito didascalismo della scenografia (la pistola maneggiata dalla donna quando dipinge ipotetici scenari suicidi) che invece nel testo originale ha una precisa funzione drammaturgica (un paio di guanti a vista che l'uomo cerca e la donna dice, mentendo, di non trovare...) - né una qualche rilettura nello scarto, per quanto impercettibile, tra testo e messinscena, ponendosi a metà di un guado che non si ha davvero intenzione di affrontare.

Poco importa però perchè Adriana Asti fa dimenticare la regia tiepida grazie a un approccio al testo unico e irripetibile.
Tramite una mostruosa padronanza dei registri interpretativi Asti riesce a restituire il ventaglio di emozioni e di stati mentali delle donne che interpreta senza alcun artificio retorico, senza essere patetica o drammatica, senza cercare nella intonazione un senso del dire che non sia quello contenuto nelle parole.

Distaccata e partecipe al contempo, con una calma che nasce dal più impetuoso e sotterraneo dei sentimenti Adriana Asti trova nel cromatismo della voce (i sussurrati detti a fior di labbra eppure chiarissimi per il pubblico, piuttosto che l'urlo energico di cui fa un uso oculato e avaro), trova nella tonalità garrula della voce che rompe improvvisa in quella bassa, bassissima, da contralto, il mezzo espressivo tramite il quale comunicare emozioni e intenzioni, testi e sottotesti, rinunciando con eleganza sublime e irripetibile a ogni effettistica, a ogni trucco della recitazione, tanto che pare di assistere non a un testo talmente conosciuto da avere una tradizione codificata, ma a un testo inedito, nuovo, che si ascolta per la prima volta.

Senza ignorare il canone ma anzi conoscendolo talmente bene da evitarne ogni trappola, ogni tentazione, sorretta solamente da una intelligenza drammaturgica ineguagliabile frutto di una sensibilità da animale da palcoscenico che è quella della prima volta e quella di chi ha maturato una consolidata esperienza nello stesso tempo, Adriana Asti ci restituisce un femminile tutt'altro che fragile o sprovveduto vestendolo di un candore istintivo e incorruttibile più unico che raro.

Così proprio nel momento in cui si concede tutto - la finzione disinvolta di chi dice di stare bene e invece muore dentro, la supplica di conservare almeno la cenere delle lettere d'amore che l'ex dice di volere bruciare, il suicidio paventato, programmato, minacciato e la inevitabile dichiarazione di amore finale ne La voce umana; la pervicace insistenza con cui pretende dal suo uomo quello che nel momento stesso in cui glielo chiede  sa essere per lui impossibile darle ne Il bell'indifferente -  acquista lo spessore morale di chi si concede tutto non per isterico capriccio o frustrante fragilità ma come autocommiserazione finalizzata alla guarigione, al superamento di una mancanza che non è quella dell'uomo, del maschio, ma di un compagno che sia alla sua altezza.

La solitudine cui Jacquot porta i due testi sulla stessa scena non è quella della donna non amata (più o mai poco importa) ma quella più universale che riguarda ogni donna, ogni persona, il cui sentire è più di ampio respiro di quello della persona che ama.

Una solitudine etica prima che esistenziale che Adriana Asti emana già con la sua sola presenza riuscendo a portare sulla scena la nuda essenza del personaggio che interpreta che trascende quella della donna mediocre perdutamente innamorata de La Voce umana cui Cocteau vuole il suo personaggio (e l'interprete che le dà vita) rimanga ancorato, tanto da scriverne una clausola-nota a esergo dell'atto unico.

Una donna che nonostante sappia non può impedirsi di amare l'uomo il cui soliloquio diventa il segno tangibile di una consapevolezza di sé irraggiungibile per qualunque uomo.

Vedere Adriana Asti in scena è una esperienza di formazione che ti segna la vita per sempre  perchè tramite le donne che interpreta fa intuire per un solo attimo a tutto il pubblico quell'oltre che solo certo femminile è capace di comprendere come i grandi scrittori del Novecento hanno testimoniato nelle loro opere.
 

Visto il 29-10-2013