A Firenze sono in scena, in un nuovo allestimento coprodotto con i Teatri di Torino e Napoli, due dittici in due serate distinte: uno d’ispirazione spagnola che abbina El amor brujo di De Falla a Goyescas di Enrique Granados e l’altro con La voix humaine di Francis Poulenc seguita da Suor Angelica di Giacomo Puccini.
Riteniamo che il secondo binomio sia particolarmente coerente in quanto entrambi i drammi scandagliano un’anima femminile logorata dall’assenza e avviata inesorabilmente a un destino di fatale disperazione. Tale abbinamento, inoltre, risulta a nostro avviso più riuscito di quello visto l’anno scorso a Torino, dove l’opera pucciniana era accoppiata a Goyescas, con cui ha poco in comune se si eccettua l’epoca di composizione.
La voix humaine, l’ultima opera di Francis Poulenc composta nel 1959 su testo di Jean Cocteau, è un lungo assolo costituito dalla telefonata di una donna all’amante (presente all’altro capo del filo, ma per noi invisibile e muto) che sancisce, in un progredire di tensione costellato da disguidi telefonici e silenzi, la fine di un amore. Il dramma è stato interpretato in forma di concerto da Annick Massis che ha saputo comunicare col movimento delle mani e del corpo tutta l’angoscia e la tensione presenti nel testo e l’assenza di scenografia e telefono non si è rivelato un limite in quanto ha funzionato per mettere in scena il desiderio di una comunicazione impossibile divenuta ossessione.
Di Annick Massis si apprezza, oltre al portamento elegante che rende credibile la donna raffinata immaginata da Cocteau, la limpida dizione francese (necessaria per questa tragédie lyrique) e il canto sfumato. Da buona belcantista la Massis privilegia lirismo a impennata drammatica e gioca su di una palette di toni e sfumature: un soffio di voce per rivelare la fragilità emotiva di chi ancora ama, suoni carezzevoli per una riconquista impossibile. Il tessuto strumentale (diretto da Xu Zhong) commenta e avvolge con colori sensuali il testo, ma talvolta rischia di diventare preponderante anziché dare giusta omogeneità a una partitura vocale per natura discontinua.
Dalla solitudine della Voix humaine si passa a quella di Suor Angelica, di cui il regista e scenografo Andrea de Rosa, con una messinscena cruda e asciutta, sottolinea il senso di vuoto e alienazione. Il regista infatti non ambienta l’opera in un monastero quanto in un triste ospedale psichiatrico del dopoguerra gestito da suore inflessibili. In uno stanzone claustrofobico che funge da refettorio, dalle pareti scrostate e immerso in una luce livida (luci di Pasquale Mari), vediamo un campionario di alienazione femminile affidato ai gesti di valide figuranti: la vecchia demente dai gesti ossessivi, una giovane costretta in una camicia di forza, una madre che culla compulsivamente un fantoccio, una donna in piedi su di una panca con le mani rivolte verso l’alto ad anelare la grazia. Malate e folli chiuse in gabbia viste oltre l’inferriata che occupa il boccascena e che segnala un limite invalicabile di separazione dal mondo “normale”. Suor Angelica esce da questa prigione solo per trovare conforto presso le piantine che accudisce con cura, ovvero gli sterpi che crescono sulla la nuda terra davanti all’inferriata. Se pur la presenza delle dementi inevitabilmente distolga l’attenzione, contribuisce a creare la giusta atmosfera per una storia di crudeltà e segregazione. Suor Angelica non è qui vestita da monaca (scelta che ha in parte contribuito a scatenare a Firenze il dissenso da parte del pubblico alla fine), ma ha lunghi capelli sciolti e, a eccezione del crocifisso sul petto, si potrebbe confondere con le folli a cui è legata da empatia e compassione. Suor Angelica potrebbe essere diventata pazza perché reclusa e dopo l’incontro con la zia, efficacemente svolto a distanza senza la possibilità di contatto, si dà la morte coi barbiturici andando incontro a una dannazione certa. E alla fine, mentre le folli escono fuori oltre le sbarre, forse libere, Suor Angelica muore in solitudine nella semioscurità sdraiata a terra abbracciata a un fantoccio che una di loro le ha donato per compassione. Un finale tutto umano che esclude ogni grazia e redenzione.
Amarilli Nizza è una Suor Angelica molto intensa e nel contesto risulta ancora più coinvolgente spingendoci a identificarci con la sua tragedia; la voce ha perso in potenza (e ne risente soprattutto il finale di “Senza mamma”), ma ha guadagnato in coinvolgimento emotivo: si apprezza sempre la modernità del gesto (fondamentale dato il tipo di regia) e l’espressività di un canto sensibile e pensato. Anna Maria Chiuri ha fatto del ruolo della zia Principessa un cavallo di battaglia e convince per la voce piena e scura che rende il personaggio sgradevole e temibile. Di buon livello i ruoli minori a partire dalla Suor Genoveffa di Parizia Cigna. Adeguate la Badessa di Romina Tomasoni, la suora infermiera di Valeria Tornatore e la suora zelatrice di Silvia Beltrami. Elisabetta Ermini è Suor Osmina e Marta Calcaterra è Suor Dolcina.
Non particolarmente ispirata la direzione di Xu Zhong che rivela giusta sensibilità nel non sovrastare la protagonista ma, complici tempi un po’ lenti, certi snodi narrativi non hanno il giusto rilievo. Bello il colore, ma con qualche imprecisione, dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Buona la prova del Coro e del Coro delle voci bianche preparati da Lorenzo Fratini.
Il pubblico della prima (troppo poco numeroso considerata l’interessante proposta) ha tributato applausi a direttore e interpreti riservando (inutili) dissensi alla regia.