“Sto vivendo con te i miei primi tormenti...”: la voce di Rita Pavone introduce alla perfezione l'ambiente, una sartoria un po' decaduta rispetto a fasti passati, due personaggi la cui diversità permette di contrapporre caratteri ed esperienze, un'Italia che nel 1963, fra Vajont, divi di celluloide e prime trasmissioni televisive, credeva nel suo boom, e le adorabili movenze in stile agè ormai desuete di un sarto delicato dentro e suscettibile fuori. Sia per l'argomento, sia per la paternità, un palcoscenico napoletano è un ambiente ideale per L’abito della sposa di Mario Gelardi, con Pino Strabioli e Alice Spisa in scena per la regia di Maurizio Panici: e dopo il debutto dello scorso anno al Todi festival, eccolo giungere al Nuovo Teatro Sanità.
Nunzia, aspirante ricamatrice, si presenta nella sartoria in cui è richiesta una collaboratrice, e trova Lucio, il sarto, con cui dal primo momento, come per una sorta di legame sconosciuto, nasce una strana, difficile ma solida intesa che li mette al lavoro su una commissione imprevista: a lui, che si occupa di abiti militari, è stato chiesto di creare un abito da sposa per la figlia di un generale al quale non può dire di no, e così parte l'avventura sia professionale sia umana con la nuova presenza in bottega.
Giorno dopo giorno, con quadri temporali cadenzati nel tempo anche con riferimenti storici e situazionali precisi, fra appropriati oggetti e costumi (di Alessandro Chiti), e con un linguaggio in cui non mancano tradizionali e realistiche imprecisioni di natura popolare (“Carlo Ponte” poi corretto in Ponti, “bigomo”), emerge la contrapposizione fra un sarto che ha curiosità talvolta quasi morbosa per il gossip ed un malcelato bisogno di parlare e comunicare (“Io parlo per te, scusa, cosa vuoi che me ne importi di quello che dico: già lo so!”), ed una sartina troppo spesso nervosa e calata con drammaticità nella sua figura di “brava ragazza” (“Sembri un film di Amedeo Nazzari... e pure brutto!”). E le fitte trame del racconto parallelo di ciò che succede "fuori", gli accadimenti coevi che scorrono fra musica ed organza, vengono diluite in quelle di un incontro che quando crea tensione, subito la dissimula.
Il risultato di questi ingredienti è un delizioso gioiellino, non solo per la capacità di far sentire con grazia l'atmosfera degli anni '60, ma anche per aver collocato col giusto peso gli ingredienti caratteriali e narrativi, fino ad una agnizione che viene affidata ad un gesto tranchant legato ad una tazzina da caffè, ed al disvelamento di una situazione che conduce, sempre con ammirevole leggerezza, ad affrontare quella che sembra anche una implicita vendetta che assurge a commento contro il crescente perbenismo dell'epoca.