Firenze, teatro Comunale, “Lady Macbeth nel distretto di Mzensk” di Dmitrij Šostakovič
AMORE E CASTIGO
Il drammatico “Lady Macbeth” polemicamente interpreta il delitto shakespeariano come gesto di rivolta antiborghese, il tono è aggressivo e crudo seppure mitigato dai tratti ironici e grotteschi, esaltati da un timbro esuberante ed estroso. Andato in scena nel 1934, fu poi vietato da Stalin in quanto definito antipopolare e formalistica e potè essere riproposto solo nel 1963 con un altro titolo (“Katerina Izmajlova”), ripulito nel libretto dalle crudezze veristiche e nella partitura da durezze armoniche e difficoltà vocali. A un soggetto prevalentemente verista corrisponde una musica del tutto personale, dove il realismo crudo e disperato della vicenda si alimenta di squarci satiricamente graffianti.
La struttura dell'opera, compatta come un poema sinfonico, è esaltata da Lev Dodin; grottesco ed ironia accompagnano con cupa allegria la tragedia e la regia sottolinea l'andamento narrativo, al punto che anche l'unico intervallo sembra di troppo. La scena scura e lignea di David Borovsky (alla sua memoria è dedicata questa ripresa) divide lo spazio in due parti sovrapposte: sopra l'intimità della camera da letto, rivelata da un'ampia finestra (efficacissima la scena dell'amore tra Katerina e Sergej con la lampada che oscilla turbinosamente); sotto lo spazio aperto/chiuso della vita quotidiana. I costumi sempre di Borovsky, situano la scena nella Russia di inizio secolo.
L'amore è castigo e maledizione nell'interpretazione di Dodin, che richiama il potere soverchiante dei gulag, il falso ottimismo usato dal potere politico come narcotico, la crudeltà che distrugge tutto nel momento in cui la gentilezza connaturata con l'uomo viene prosciugata.
L'amore è totale: basta il gioco di sguardi nel primo incontro di Katerina e Sergej, folgorati, lei da sola alla finestra in sottoveste, lui tra gli altri, in basso. L'amore non concede alternative: il cadavere di Boris è sopra un catafalco, coperto da un lenzuolo, lì vicino i protagonisti si abbandonano a sesso sfrenato sopra i sacchi di farina.
Non c'è la truculenza del sangue, ma la claustrofobia di botole, cantine, sottoscala. Efficace la scena dell'apparizione del fantasma di Boris: si sente solo la voce, si aprono le porte da cui penetrano lame di luce algida che allungano lugubri ombre sugli impiantiti di tavole scure. Raggelanti i soprusi della polizia sulla popolazione inerme, mentre il pope, indifferente, si addormenta.
Il quarto atto è di un'efficacia sorprendente, l'atmosfera cupa e inquietante dei gulag (evitabili i cani), la neve nel buio, il mare di corpi ammassati e anonimi, sofferenti, annichiliti, annientati. E, nel finale, la scena slitta indietro, rivelando un buco che le luci suggeriscono essere il lago in cui precipitano Katerina e Sonetka. Poi, sui loro corpi, si richiude.
La direzione orchestrale di James Conlon preferisce dare maggiore respiro ai momenti lirici, a svantaggio delle sciabolate espressioniste veementi, ottenendo morbidezze invece che rasoiate. Ma in questa opera l'orchestra è protagonista e quella del Maggio è in ottima forma: stupisce ancora, a dieci anni di distanza, il colpo di genio del regista, quel sollevarsi dei musicisti dalla buca al livello del palcoscenico negli interludi, un'orchestra che entra dentro la scena e si fa protagonista tanto e quanti i cantanti: la separazione tra buca e palcoscenico è annullata. E il pubblico, ancora oggi, rimane stupefatto.
Per una regia così complessa e dettagliata ci vogliono grandi capacità attoriali, oltre che voci adeguate. Jeanne-Michèle Charbonnet è una bravissima attrice, ha voce di temperamento drammatico-espressionista e di bel colore ma carente per estensione, soprattutto nel registro acuto, con difficoltà nel mantenere le note alte; particolare il registro grave, che si tinge di luttuosità, corposo il medio. Bravi gli uomini, soprattutto Vladimir Vaneev, straordinario per la ricchezza di colori e la pastosa luminescenza del timbro scurissimo; il suo Boris è un dominatore che impone comportamenti e azioni a familiari e sottoposti. Umanissimo e, in fondo, debole, lo Zinovij di Vsevolod Grivnov. Adeguato per fisicità e vocalità il Sergej bello e dannato di Sergej Kunaev, sfrontato, sicuro di sé, borioso e attraente, irresistibile.
Il coro è stato ottimamente preparato da Piero Monti, sostenendo alla pari il dialogo con l'orchestra.
Qualche posto vuoto nel teatro, ottima reazione del pubblico per uno spettacolo giustamente premiato con l'Abbiati e che, a dieci anni di distanza, mantiene inalterato il suo fascino.
Visto a Firenze, teatro Comunale, il 26 giugno 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Maggio Musicale Fiorentino
di Firenze
(FI)