Lirica
L'AFRICAINE

L'africana dall'India

L'africana dall'India

La Fenice propone come opera inaugurale di stagione un lavoro mai rappresentato in laguna nel Novecento e poco frequentato nei teatri in genere, destando l'interesse di critica e pubblico.
“L'africaine” presenta molte questioni irrisolte, legate a una delle genesi più lunghe e travagliate del teatro musicale (dal 1836 al 1865), tanto che il risultato non è esente da incongruenze, anche per la mancata revisione del libretto e della partitura da parte di Scribe e Meyerbeer: alla prima all'Opéra di Parigi del 1865 l'opera fu orfana sia del compositore che del librettista. Addirittura Fétis, che si occupò della revisione, preferì il titolo originario (“L'africaine” appunto) al nuovo titolo previsto da Meyerbeer (“Vasco de Gama”) creando un pasticcio geograficamente problematico, visto che la protagonista proviene dall'India ed è seguace di Brahma, e un anacronismo storico: Vasco de Gama salpa la prima vola nel 1497 mentre l'Inquisizione portoghese, fondamentale per lo svolgersi del plot, viene istituita solo nel 1536. Il pasticcio è splendidamente sintetizzato dalla vignetta di Pat Carra nel programma di sala: “Sei indiana e ti spacciano per africana”, “Sono regina e mi fanno passare per schiava d'amore”. Battute a parte, assai complesso è l'intreccio della trama tra questioni di cuore, politiche, religiose e coloniali.

Di fronte a una partitura così complessa e a una storia affastellata il regista poteva semplificare oppure oggettivizzare. Leo Muscato, sensibile e intelligente, percorre la seconda strada venandola di estetismo fiabesco ma senza dimenticare la prima: racconta la storia con oggettività in modo da renderla comprensibile e coglierne soprattutto gli agganci con il contemporaneo, lui che è specializzato nell'operazione come ha dimostrato con l'irraggiungibile progetto “ri-scritture” prodotto dalla Leart'. Meyerbeer scrive l'opera come un atto di denuncia del colonialismo e dello schiavismo: la conoscenza delle nuove terre è la scusa per conquistarle e spogliarle a vantaggio del potere economico dei regni europei. Da qui parte Muscato, che condivide la tesi e la attualizza: basta pensare al rilievo che dà al duetto Sélika-Nélusko in prigione sullo sfondo dei maltrattamenti ai carcerati (“Que veux-tu faire? C'est un prisonnier comme nous; c'est un compagnon de misère!”, “C'est un chrétien, je les déteste tous.”, “Il fut notre sauveur, il est là sans défense”) e all'insistito oscurantismo che regna nel libretto di Scribe: paura del non conosciuto, malsopportazione per la conoscenza, la condanna di ogni fanatismo, mali d'epoca ma diffusissimi ancora oggi. Soprattutto il regista rende visibile la storia narrata nel libretto con grande senso del teatro, attenta e suggestiva gestione delle masse, calibrati e misurati gesti dei protagonisti sempre pieni di significato ed evocativi del carattere e delle intenzioni.

Complici essenziali della riuscita dell'allestimento sono gli apparati scenotecnici. La semplice ma significativa ed efficace scena di Massimo Cecchetto utilizza una pedana inclinata che esce dal quadrato nero, rigidamente segnato, del boccascena. Nei primi due atti, ricoperta di rosso e con mobili in noce, la pedana diventa sontuosi interni portoghesi; nel terzo atto, denudate le tavole e sistemata la tolda di una nave, fa respirare il mare aperto; negli ultimi due atti, ricoperta di celeste, presuppone luoghi esotici, indiani per estensione ma non solo.
Gli splendidi costumi di Carlos Tieppo declinano un barocco iniziale quasi monocromatico nei primi atti e un colorato Rajasthan per il prosieguo, rispettosissimi del dato storico ma, per ovvie ragioni teatrali, con il falso dei corpetti per le indiane introdotti invece in epoca inglese. I costumi allegri delle donne indiane contrastano con l'abito bianco di Sélika nel finale, sbilanciata sopra il mare: una sati dai capelli tagliati che si immola per amore, seppure non sulla pira funebre del marito al quale ha consentito di partire con la donna che ama. Se questo non è amore, allora cos'è l'amore?
Fondamentali per la riuscita dello spettacolo le perfette luci di Alessandro Verazzi: la maggiore suggestione ambientale lo spettatore la prova grazie al nero totale, misterioso, inquietante, assorbente che circonda la scena e che fa risaltare come non mai quanto essa contiene; i raggi dall'alto cadono con una consistenza materica come pennellate di denso colore, rosso e giallo principalmente. Per non dire del suggestivo effetto delle candele nelle quattro lumiere della scena con l'Inquisitore in cui i toni giallastri virano al bianco per i momenti di riflessione.

Fondamentali nell'economia dello spettacolo anche i video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili, proiettati in prevalente bianco e nero su velatino con immagini appena accennate che non vogliono soltanto meramente e banalmente “attualizzare” l'opera quanto piuttosto dimostrare la contemporaneità dei temi, suggerendo confronti e vicinanza e tenendo desta l'attenzione dello spettatore. All'inizio l'opera parla di conquista e dunque ecco i nuovi colonialismi: lo shuttle e la camminata sulla Luna, navi da guerra su mari perigliosi e aerei a reazione su nuvole bianche, soldati e schiavi, armi e carri armati, il bombardamento notturno su Baghdad. Quindi i risultati dei nuovi colonialismi: oro, petrolio, opifici, raffinerie, azioni di borsa. A chiudere un antico planisfero su arazzo, segno grafico che torna più volte, nella stanza di Inès e nella cabina di Don Pédro. Nel secondo atto lo sfruttamento umano e il commercio degli schiavi. Nel terzo atto il mare: il video introduce sabbia, acqua che cancella e rinnova, navi da crociera e alberghi di lusso, la tradizionale ospitalità araba e un centro commerciale di Dubai, un bambino che gioca a riva con una barchetta e mani che offrono acqua in una conchiglia. Nel quarto e nel quinto atto l'India oggi: la povertà piangente e la ricchezza scintillante, baraccopoli e grattacieli, uomini che pregano e lavorano, un sadhu mite e gentile, il riso basmati e i farmaci Aventis, un treno con le persone anche sul tetto e la festa di Diwali le luci ovunque.

Emmanuel Villaume ha sul leggìo una partitura preziosa con un'orchestrazione complessa e densa di colori, prodiga di apporti dalle varie componenti; più che cogliere le derivazioni dalle architetture romantiche (spontiniane e donizettiane), il Maestro privilegia i rimandi estetizzanti e decadenti, sottolineando in modo splendido i richiami esotici e amplificando così l'effetto teatrale della regia di Muscato. La direzione gestisce l'imponente massa orchestrale senza perdere duttilità e sfumature, come nel corteo che apre il quarto atto dove si esplorano timbri inusuali, e dà il giusto rilievo ai timbri che si associano all'azione divenendo temi ricorrenti. Giusta la scansione dei tempi e il taglio della parte iniziale del quinto atto per una maggiore tensione drammatica della parte finale.

Veronica Simeoni utilizza la propria personalità per plasmare a fondo Sélika, l'Africana che viene dall'India; Meyerbeer aveva concepito il ruolo per un mezzosoprano salvo poi scegliere, nell'ultima versione, un soprano per rendere il contrasto tra le due donne ancora più accattivante: la voce della Simeoni non è troppo scura e scorre via limpida e morbida raggiungendo la zona acuta senza sforzo, dunque sembra perfetta (nel secondo cast il ruolo è sostenuto da Patrizia Biccirè, un soprano); se il fraseggio potrebbe essere maggiormente chiaroscurato per rendere accenti e gradazioni sonore, tuttavia si è apprezzata l'evoluzione psicologica dallo smarrimento in Europa alla sicurezza in India, dalla paura della donna imprigionata e poi “regalata” alla regina nei propri possedimenti fino allo struggente, languido finale in cui le tinte erotiche si mescolano alle suggestioni religiose con risultati notevoli anche dal punto di vista attoriale. Le tiene testa un'angelicata (e boccoluta) Jessica Pratt, Inès dolce e appassionata dalla voce importante, cristallina e pulita, sicura in acuto, ben timbrata e sonora nei centri. Ottimo il Vasco de Gama di Gregory Kunde, la cui voce pare ideale per la parte, una voce ampia e solida ma agile e leggera, dallo splendido timbro, con gli acuti squillanti e una grande carica interiore che si traduce in slancio passionale sia nell'affrontare le imprese coloniali sia nei momenti intimi di delicato lirismo. Magnifico nella presenza scenica e nella recitazione (si fa fatica a credere che non sia davvero un Rajput), Angelo Veccia non ha problemi a dominare la difficile tessitura di Nélusko con grande suggestione, dalle rabbiose invettive iniziali alla baldanza arrogante del quarto atto alla disperazione sentimentale del finale: una prestazione ricca di sfaccettature resa generosamente dal baritono. Luca Dall'Amico è un Don Pédro dalla voce ben timbrata nel registro mediograve che il cantante risolve con intelligenza: non il prepotente e vanaglorioso rivale dell'esploratore ma un uomo volitivo e determinato che sfoga nella rabbia un amore non corrisposto.
Bravi i numerosi comprimari: Davide Ruberti (Don Diégo), Mattia Denti (Inquisitore di Lisbona in saio domenicano), Rubén Amoretti (Sacerdote di Brahma), Anna Bordignon (Anna) e Emanuele Giannino (Don Alvar). Con loro Bo Schunnesson (Usciere), Carlo Agostini (Marinaio), Ciro Passilongo (Vedetta), Domenico Altobelli (Sacerdote) e il coro della Fenice ben preparato da Claudio Marino Moretti.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)