Il Canovaccio, esperienza essenziale nel teatro dei primordi, è un mondo a se stante. Questo perché racchiude la vera essenza dell'arte scenica, l'effimero. Quello a cui si sta per assistere dev'essere un momento unico, e lo diventa perché nemmeno i protagonisti dello stesso sanno quello che gli spetta. Gli errori, le imperfezioni e l'imprevedibilità diventano spunti comici ed ironici, oltre a definire i limiti stessi del teatro.
All'inizio di quello che ora è solo una forma d'arte vi era il rito. Un sacerdote permetteva di entrare in contatto con l'altro, il non visibile, il divino. Paolo Rossi, supportato da ottimi musicisti ed un canovaccio solido, fa la stessa cosa, interfacciando lo spettatore con un qualcosa che va sempre più a perdersi: la creatività.
In questo spettacolo non esistono particolari artifizi registici o illuminotecnici. La quarta parete viene brutalmente abbattuta in continuazione ed il meta sono una piacevole necessità atta a supportare la creatività del comico, che senza pubblico non esisterebbe. Sia chiaro, non esiste reale interfaccia tra pubblico e teatranti, ma se non si riferissero continuamente al pubblico lo spettacolo perderebbe gran parte della sua potenza.
I Virtuosi del Carso, la band che sorregge Paolo Rossi, sono eccezionali in bravura e trascinanti come la musica dovrebbe essere.
Non ci sono altre parole da dire, ma c'è molto da godere, giunti in teatro.