Il giovane regista Paolo Giorgio ha presentato allo Spazio Tertulliano di Milano la versione scenica del celebre film degli anni '30 "L'angelo azzurro". La situazione in cui si sono messi i creatori dello spettacolo è davvero poco invidiabile: hanno dovuto confrontarsi niente di meno che con von Sternberg, Emil Jannings e… Marlene Dietrich. Per ora la supremazia rimane ai tedeschi.
Non si sa se anche prima di mettere in scena "Stanlio e Ollio: due a teatro" di Juan Mayorga al Filodrammatici a novembre scorso, Paolo Giorgio si interessasse del cinema d'altri tempi. Tuttavia, è quasi certo che la triste storia dei due comici messa in rilievo dallo spagnolo l'abbia spinto a mettere alla prova le proprie forze drammaturgiche in relazione con un copione cinematografico. Anzi, a puntare ancora più in alto rispetto all’iberico, perché "L'angelo azzurro" non è – con tutto il rispetto - Stanlio e Ollio. E' roba da intenditori, da "buongustai" , difficile da trovare se non in qualche mediateca. Molti associano il titolo del film alla presenza di Marlene Dietrich. Pochi ne ricordano il contenuto. Quasi nessuno la trama e l'autore del libro: l'illustre intellettuale tedesco Heinrich Mann (il fratello maggiore del, forse, più famoso Tommas). E siccome alla vigilia del debutto, Giorgio per qualche motivo ha voluto dire di essersi ispirato non tanto alla pellicola, quanto al testo originale - il romanzo satirico "Professore Unrat o la fine di un tiranno", in Italia conosciuto anche con lo stesso titolo del film, forse sarebbe opportuno ricordare di che cosa si tratta.
L'opera è incentrata attorno al grottesco personaggio di un professore di lettere di un liceo in una cittadina tedesca. Malgrado la materia che insegna è ripugnante esteriormente e abominevole interiormente. Si chiama Rath, ma tutti i liceali lo chiamano Unrat (in tedesco "pattume, spazzatura" o, in questo caso, potrebbe essere tradotto anche come "carogna"). Non è un caso. E' un tiranno, vile e vendicativo, che in ogni studente vede solo un essere "grigio, avvilito, perfido", "rivoltoso" e "tirannicida". Tutti i suoi pensieri e aspirazioni si riducono al desiderio maniacale di "cogliere in fragrante", di nuocere a ogni costo, di rovinare la carriera a colui che si azzarda a chiamarlo con il suo iniquo soprannome. Egli insegna da più di venticinque anni e la scuola per lui "non finisce con il cancello, ma si estende su tutte le case della città e dell'hinterland, sui cittadini di tutte le età" e, in fin dei conti, su tutta l'umanità che lui odia con tutte le sue forze. Osservatore pedante dei principi morali, un giorno il professore capita in un lurido locale, una specie di covo, una taverna-cabaret, dal nome palesemente derisorio "L'angelo azzurro" dove regna una giovane e belloccia sgualdrina Fröhlich, una cantante da strapazzo che il professore ampollosamente chiama "l'attrice Fröhlich". La tardiva passione del vecchio misantropo per questa rappresentante della "cultura popolare" completa il suo degrado. Licenziato dalla scuola, con l'aiuto della cantante che nel frattempo diventa sua moglie, egli trasforma la sua casa in una via di mezzo tra un bordello e una casa di gioco dove trova ancora maggiori possibilità per soddisfare i propri mesantropici vezzi e la sua grottesca brama del potere. Corrompe tutta la città e fintanto che all'interno del covo da lui creato vengono persi al gioco interi capitali e rovinate le reputazioni di rispettabili bürger sedotti "dall'attrice Fröhlich", egli annuncia che la cosiddetta morale è il destino degli schiavi, mentre lui appartiene a un gruppo sociale differente, indubbiamente superiore, che segue un'etica completamente diversa.
Detto ciò, chiunque abbia letto il libro e visto il film non potrà non accorgersi che, malgrado le affermazioni del regista, la sua riduzione scenica non è tratta affatto dal romanzo, ma rappresenta uno stringato riassunto del copione cinematografico. Nessuno tuttavia vuole criticarlo per questo. Costruire spettacoli ispirandosi a film famosi ai giorni nostri è diventata una prassi comune. E anche se, teatralmente parlando, rappresenta un fenomeno triste, nel tempo di vacche magre aiuta a fare gli incassi. Il discorso è diverso. Già all'epoca, cercando di adattare la pellicola ai gusti del Führer, i suoi produttori avevano apportato dei significativi cambiamenti alla trama originale. L'acuta e iperbolica satira di Mann venne ridotta, in sostanza, a una comicità ridanciana con molta musica. Non era sicuramente il momento per criticare le caratteristiche nazionali, ma già così per tutto il periodo nazista la pellicola è stata ritirata dalla distribuzione, così come anche tutte le opere di Heinrich Mann e dello sceneggiatore Carl Zuckmayer.
Paolo Giorgio ha eseguito una radicale vivisezione di questa già succinta versione cinematografica di Zuckmayer. E' evidente che, come nel suo lavoro precedente, "Stanlio e Ollio", quel che lo interessa non è la satira sociale dello scrittore tedesco riportata ai tempi nostri, ma un rapporto di copia. Concentrandosi sul momento centrale di tutta la storia – la relazione amorosa tra il vecchio e scorbutico prof (Massimo Loreto) e la giovane soubrette da due soldi (Caterina Bajetta) – egli ha tagliato fuori tutti i dettagli e i personaggi (gli studenti, i colleghi-acrobati di Lola Lola, i frequentatori del locale, i burger lascivi ecc.) - a suo parere, non pertinenti – che sia nel film che nel testo originale aiutano a capire la vera natura del protagonista attraverso le situazioni comiche e grottesche nelle quali egli si caccia .
Tutto è ambientato, ovviamente, nel camerino di Lola Lola. Lo scenografo – di cui purtroppo non è stato possibile scoprire il nome - ha bordato la scena, naturalmente, di rosso e, per non far dimenticare della vera professione del protagonista, al centro del palco, un po' in fondo, ha collocato una lavagna. La narrazione è una specie di diario dove i giorni scorrono come pagine, portando il personaggio principale verso la rovina. Il fatto che questi parli di se in prima persona non aiuta di certo a svelare la sua vera natura carognesca e rende tutto molto più smussato, molto più pallido e appiattito. Il risultato è triste, in tutti i sensi. Ci troviamo davanti non un tizio abietto e vendicativo, che riceve quel che si merita, ma quasi un povero e frustrato vecchietto per il quale il suo amore serotino rappresenta l'ultima luce che illumina la sua misera vita. A un certo punto il professor Ratto comincia a suscitare persino compassione. L'antipatia invece per inerzia si sposta sulla sua compagna che, a questo punto, appare come una perfida squaldrinella che, dopo aver scialacquato tutti i risparmi della lunga vita lavorativa del suo attempato consorte-intellettuale, lo spinge a fare lo zimbello davanti a tutta la città.
Non si può criticare gli attori per quest'interpretazione ben lontana dal disegno originale. Hanno eseguito con impegno e dedizione quel che il regista ha richiesto loro. Probabilmente le loro doti artistiche avrebbero brillato di più se questi avesse sfruttato davvero il contenuto di quest'opera satirica. Riletta in chiave moderna, ancora oggi questa si presta benissimo a svelare l'ipocrisia e le perversioni di alcuni personaggi dei tempi nostri (per esempio, la loro passione per le giovani vallette e non solo). Allo stato attuale, il risultato dei suoi sforzi è un melodramma abbastanza anonimo, senza infamia e senza lode. E così come da nessuna parte nella locandina viene indicato il nome del traduttore, forse si poteva omettere anche quello di Heinrich Mann (che sicuramente non se ne sarebbe offeso).