L'ANIMA BUONA DI SEZUAN

Tra i lavori della maturità d…

Tra i lavori della maturità d…
Tra i lavori della maturità di Brecht, L’anima buona del Sezuan – che pure s’inscrive nel filone del dramma didascalico – presenta dei caratteri abbastanza singolari che ne fanno un lavoro piuttosto decentrato rispetto alla produzione più spiccatamente “politica”. La vicenda è imperniata sul tema del bene, sulla capacità dell’individuo di essere “cristianamente” buono con gli altri individui del proprio gruppo sociale; la marcatura di un bene metafisico, teologico, è evidenziata dalla ripetuta presenza fisica degli dèi – seppure in realtà molto umanizzati – che appaiono sin dalla prima scena a chiedere ostello all’acquaiolo, rievocando l’episodio biblico di Sodoma e Gomorra. La tesi di Brecht, di verosimile ispirazione marxista, emerge lucidamente dal dramma: la pressione del bisogno collettivo è troppo superiore alle capacità del singolo, e la dialettica etica tra individuo e corpo sociale rimane irrisolta: la dualità del protagonista Shen Te / Shui Ta rivela che un “donarsi” incondizionato e acritico può risultare rovinoso persino di fronte all’amore, laddove l’individuo può trovare equilibrio quando conferma la distanza e il rispetto della regola sociale nei rapporti con gli altri individui. I registi Vetrano e Randisi realizzano una messa in scena di notevole pregio, opponendo il mondo reale e materiale della quotidianità, la parte bassa della scena, spazio semichiuso traforato da cunicoli, poco più che un habitat animalesco, al mondo (quasi) metafisico degli dèi e degli ideali dello spirito, posto su un piano sopraelevato che s’impregna di colori e di trasparenze oniriche. L’impostazione espressiva è certamente poco “brechtiana”: la drammaturgia è carica, a tratti vagamente espressionista, anche in quegli interludi recitativi in cui i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico; ma questa scelta, schiettamente intenzionale, non corrompe la forza delle argomentazioni brechtiane, soprattutto per l’eccellenza dell’intera compagnia di attori, che si prestano al gioco delle doppie e triple parti con una fluidità e un sincronismo esemplari; le poche battute tagliate rispetto al corposo scritto originario non sminuiscono la tenuta del testo, e gli otto attori riescono a interpretare la gran quantità di personaggi senza alcun sacrificio di quella brulicante coralità così indispensabile al senso di questo lavoro. L’istanza reclamata nell’epilogo formale – l’asserzione che le sorti del bene terreno dipendono infine dalla volontà dagli uomini – viene anticipata con un sottile intervento di regia sulla scena finale: non sono gli dèi a lasciar sola la protagonista, con l’incompiutezza del suo dubbio morale, ma gli uomini stessi che l’avevano variamente giudicata nell’aula di tribunale; in questo modo la strofa dell’explicit viene ridotta a pura cantilena sonora. Appena fuori misura appaiono soltanto alcune opzioni musicali di commento (come il romantico adagio di Mozart e le armonie di Chopin) che spingono alcuni quadri su un piano forse eccessivamente “lirico” anche rispetto al progetto estetico del duo di regia. Si tratta comunque nel complesso di un lavoro di gran qualità che, se da un lato mantiene viva l’attualità di Brecht e della sua riflessione sul mondo, dall’altro conferma il Teatro di Sardegna come una delle migliori realtà della drammaturgia nazionale. Nuovo Teatro Nuovo - Napoli, 29 febbraio 2008
Visto il
al Margherita di Putignano (BA)