Persino uno dei classici del teatro come Molière può rinnovarsi se a farlo è l’abile creatività ristrutturatrice di una delle isole culturali italiane: il Teatro delle Albe di Ravenna
Chi ha detto che una vecchia pièce a teatro è sempre la stessa pappa? La regia del teatro di ricerca fa miracoli. Persino uno dei classici del teatro come Molière può rinnovarsi se a farlo è l’abile creatività ristrutturatrice di una delle isole culturali italiane: il Teatro delle Albe di Ravenna.
L’Arpagone di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una donna. Ma senza tirare in ballo la modernità dei tempi nel possesso dei soldi e del potere o le metafore dei tempi che cambiano, direi che la cosa non si è notata. Mentre infatti Molière ha messo in scena un uomo, nel senso concreto di un essere umano e lo ha anche caratterizzato col sesso maschile (tipico della sua epoca), Martinelli, attraverso la sua scrittura scenica, ha messo in scena un concetto, l’avarizia appunto. Certamente c’erano sempre Cleante, Elisa, Valerio e tutta la servitù di contorno, con i loro discorsi e sotterfugi, ma non erano fini a se stessi o retorici come l’arte della parola prevede. Erano piuttosto coordinati in un’energia centripeta: senza avere lo stesso fine, erano legato l’uno all’altro. Anzi meglio, gli uni senza gli altri non potevano esistere.
Lo spettacolo è cominciato senza “disturbare”. Infatti il pubblico si è accorto, tra il vociare classico del prima spettacolo, che degli operai sul palcoscenico stavano togliendo i pezzi di scenografia che erano sparsi qui e là. Sono quelli i pezzi che verranno ricomposti in una scenografia dotata di senso, durante e alla fine della pièce. A ben guardare quegli operai erano troppo ordinati, rilassati e ben truccati… Quindi, si è fatto presto a dedurre che la cosa faceva parte della messinscena.
In due ore di spettacolo, “L’Avaro” di Molière (nella bella traduzione di Cesare Garboli) è stato scomposto e ricomposto davanti ai nostri ed ha assunto una nuova veste scenica.
Arpagone era interpretato da un’eccezionale e quasi inquietante Ermanna Montanari, che lo ha caratterizzato come un essere (uomo o donna? Non si sa, perché oltre l’abbigliamento, pure la voce era fintamente afona ed indefinibile) sempre distaccato dagli eventi, sicuro di sé e del fatto suo, atto al potere ed ai segreti e il cui apparire era legato fisicamente ad un microfono, accarezzato come fosse una bella donna e posseduto come un feticcio dal potere ammaliatore che lo accompagnava negli esageratamente stirati e rarefatti movimenti da un lavo all’altro del palcoscenico.
Le scene, realizzate come sketch, erano scandite da forti colpi, come spari, che ne bloccavano lo svolgimento e cambiavano la posta in gioco e che, in maniera quasi simmetrica, erano più frequenti all’inizio e alla fine dello spettacolo.
La storia la conosciamo tutti e Martinelli non la stravolge. Semplicemente, la valorizza rendendola senza tempo e senza luogo, praticamente una storia di concetti su cui riflettere.
Arpagone è senza bellezza, amore, saggezza e onestà. Praticamente è il contrario dei suoi innumerevoli antagonisti: i figli che tentano di farlo ragionare, i servi che pensano di corromperlo, l’amata Mariana che lo guarda disgustata ed infine Anselmo (alias don Tomaso Dalburzio) che è felicemente amante della vita e dell’amore senza interesse. Oltre il valore dei soldi, che nessuno osa mettere in discussione davanti ad Arpagone, l’amore è la scintilla scatenante dei problemi. Infatti mentre Cleante e Mariana si amano senza farlo sapere in giro, Arpagone, decide di sposare la ragazza (e di far sposare una vedova al figlio) perché, come gli ha fatto credere l’arguta e sbrigativa serva Frosina, Mariana gli porterà in dote il notevole fatto di non spendere soldi (a differenza delle altre donne) e quindi il guadagno consiste in quello che non spenderà.
Ogni favola prevede il suo lieto fine e la comicità, che segue un climax amplificatore, è assicurata dai colpi di scena, come nel finale. Infatti Marco Martinelli/Anselmo arriva dalla platea per sistemare i fatti acconsentendo amorevolmente alle nozze dei figli che aveva perduto in un naufragio e che riconosce nell’adulatore di Arpagone, cioè Valerio e nell’immacolata Mariana, con i figli di Arpagone, l’innamorata Elisa e l’amante della bella vita Cleante.
La scomposizione della storia molièriana quindi è agita a più livelli. Le scene sono scandite da spari o legate da movimenti convulsi dei personaggi. Arpagone è totalmente estraniato dal resto dei personaggi e con una voce quasi irreale, fino al punto da renderlo comico. Le musiche sono prima swing, poi da discoteca nella immobilizzata festa in giardino ed infine dodecafoniche nei momenti simbolici. Simboliche sono le scene delle cameriere, che servono per presagire i fatti. Ci sono poi le scenografie rarefatte e che, presenti davanti al pubblico all’inizio dello spettacolo vengono prima eliminate e poi ricostruite man mano.
Tutto serve a far avere al pubblico gli elementi necessari per fargli ricostruire autonomamente e simbolicamente i fatti che hanno il loro clou nel ladrocinio della cassetta del tesori di Arpagone, la significativa scrivania con l’enorme scritta “cassetta”, i matrimoni estorti con la restituzione del tesoro e le concessioni di Anselmo.
Risultano artisticamente inquietanti i movimenti sincronizzati o alternati delle due cameriere, come anche le iniziali movenze ripetitive a scatti di Elisa (Laura Radaelli), che d'altronde a un certo punto nitrisce come un cavallo, in un tipo di recitazione molto caricata, soprattutto all’inizio dello spettacolo.
Bravissimi, oltre la leggendaria Ermanna Montanari (Arpagone), anche Michela Marangoni (Frosina), Alessandro Argnani (Valerio) e Roberto Magnani (Cleante).
Unica nota lievemente stonata nell’accurato allestimento era il riconoscibile accento romagnolo degli attori che interpretavano i servi.
Nella particolarità registica non erano previsti odori; ma l’odore di cucina era nell’aria. Infatti è assurdo ma vero, che nel palcoscenico dello storico Teatro Valle di Roma, un tempo gestito dall’ETI, fuoriescano i vapori della cucina della retrostante Brasserie ed è doloroso ammetterlo, ma se non fosse stato per l’architettura tipica e per l’accuratezza dello spettacolo proposto, invece che nel teatro d’arte di Pirandello, pareva di trovarsi nel cortile sul retro di una bettola medievale. Ed è stato un vero peccato.