Lirica
LE BRACI

Fantasmi alla ricerca del destino

Fantasmi alla ricerca del destino

L’Opera di Firenze, insieme al Festival della Valle d’Itria, ha commissionato a Marco Tutino Le braci, tratta dall’omonimo romanzo dell’ungherese Sándor Márai che ha la forza drammatica e letteraria di un duello verbale e psicologico. L’opera era andata in scena una prima volta in Ungheria (ottobre 2014) e a Martina Franca (luglio 2015) ma senza il melologo iniziale che invero appare necessario per immergere lo spettatore nella storia e nell’ambiente: dunque questa di Firenze deve essere considerata la prima rappresentazione assoluta della versione definitiva.
Compositore di spicco del movimento neoromantico, Tutino crea musiche di impatto forte e immediato che fanno presa sul pubblico comunicando in modo chiaro e comprensibile lo svolgimento dei fatti e soprattutto le inquietudini degli animi. Semplice solo in apparenza, la musica delle Braci descrive atmosfere evanescenti dominate da fantasmi, visualizza i luoghi decadenti nel momento in cui stanno svanendo sprofondati nella terra, esprime le singole psicologie con mezzi espressivi di varia matrice che, ciclicamente, si rinsaldano in quei valzer così caratteristici nell’impero austro-ungarico in cui si svolge parte del racconto.

Nel tempo della seconda guerra mondiale in un castello isolato si incontrano, dopo oltre quarant’anni, Henrik e Konrad, da giovani legati da un’amicizia intensa come se fossero stati gemelli, poi separati e mai più visti né sentiti a causa di un segreto legato a una donna, Kristina. Due vite legate e poi spezzate che sono trascorse in attesa di quel giorno e di quel duello verbale al cospetto dell’anziana governante Nini (“Nessuna parola poteva definire il loro rapporto. Non erano né fratelli né amanti. Esiste qualcosa di diverso, e se ne rendevano oscuramente conto. Esiste una fratellanza particolare che è più stretta e più profonda di quella che unisce i gemelli nell’utero materno. Non c’è nulla che gli uomini desiderino con tanto ardore come un’amicizia disinteressata”).
Il libretto, dello stesso Tutino, parte dagli stessi presupposti ma conduce ad altri approdi, immaginando la vicenda soltanto come rievocazione di fantasmi da parte di Henrik per acquisire la consapevolezza della propria morte. Se questo raffredda la forza incandescente del romanzo, la musica invece sottolinea perfettamente il dramma che si compie e la ricerca inesausta di capire il senso e la direzione del proprio destino. Se il libretto prova a rendere la liricità del testo di Marai, invero il risultato è compiuto per mezzo della musica evocatrice.

Matura e intelligente la regia di Leo Muscato che riesce ad attrarre l’attenzione dello spettatore per la durata dell’atto unico (quasi due ore) in un’opera praticamente priva di azione, grazie alla perfetta aderenza parola-gesto, azione-reazione e sentimento-movimento, in una resa scenica di alto livello curata in ogni dettaglio che non risulta scontato né banale. La scena di Tiziano Santi è fissa, il salone di un palazzo nobiliare in rovina che sta sprofondando nella terra sabbiosa; intorno un bosco di alberi spogli su terreno accidentato dove si cammina a fatica; il fondale, vuoto e luminoso pur nel buio, è affidato alle splendide luci di Alessandro Verazzi che riesce a imprimere grande intensità anche agli interni, tra incubo e realtà, mescolando ricordi, presenze e apparenza, tutto in modo assai comprensibile, come il lampadario di cristallo che si accende nei momenti in cui l’azione scenica è effetto dei ricordi di gioventù. I costumi di Silvia Aymonino situano l’azione al tempo voluto dal racconto, la seconda guerra mondiale, ma danno anche l’idea che i protagonisti hanno fermato la loro vita a oltre quarant’anni prima, simbolici e malinconici testimoni di una Mitteleuropa ormai tramontata e irrecuperabile, come le loro vite.

Vista la scelta nel libretto di dare maggiore spazio alla figura di Henrik, Roberto Scandiuzzi risulta il vero protagonista dell’opera: il portamento è altero e distaccato ma non sconfitto e l’immedesimazione di rara intensità, sfruttando screziature sensuali nella voce per arricchirla di toni nobiliari ormai demodè (“il generale si muove con lentezza, appoggiandosi al bastone”). Accanto a lui si inserisce con naturalezza il Konrad di Alfonso Antoniozzi, la cui lettura intelligente non relega il personaggio soltanto a lato del protagonista. I due sono adeguatamente interpretati, nei ricordi giovanili, rispettivamente da Pavol Kubàn e Davide Giusti, peraltro fisicamente perfetti per due ruoli così diversi fisicamente e caratterialmente. Molto brave le due donne: Angela Nisi è una Kristina squillante e ben timbrata, dalle nuances palpitanti e perturbanti ma mai bamboleggiante; Romina Tomasoni presta la sua voce scura e affascinante a una Nini che invece spazia piuttosto nella zona medio-alta della tessitura con movenze attoriali di grande bravura (“la balia si muove a piccoli passi veloci”). Leo Muscato è l’intensa e commossa voce recitante del melologo. I danzatori della Fattoria Vittadini (Chiara Ameglio, Matteo Agatiello e Cesare Benedetti) ballano i valzer su coreografie di Matteo Agatiello.

Francesco Cilluffo guida l’eccellente orchestra del Maggio con passione ed entusiasmo, rendendo la partitura con grande efficacia al punto che i molti giovani stranieri presenti in sala sono rimasti affascinati al primo ascolto e, all’uscita, si sono fermati nel foyer per commentare entusiasticamente musica e regia.

Visto il
al Maggio Musicale Fiorentino di Firenze (FI)