Prosa
LE CENERI DI GRAMSCI

Jesi (AN), teatro Pergolesi, …

Jesi (AN), teatro Pergolesi, …
Jesi (AN), teatro Pergolesi, “Le ceneri di Gramsci” di Pier Paolo Pasolini LA COSCIENZA E LE POSATE DI PLASTICA Pubblicato nel 1957 ed ambientato davanti alla tomba di Gramsci nel cimitero acattolico di Roma, “Le ceneri di Gramsci” espone poeticamente la sofferta contraddizione tra l'ideale marxista e una visione religiosa della realtà: “mi chiederai tu, morto disadorno, / d'abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?”. L'idea centrale nelle Ceneri di Gramsci è che la letteratura, invece di costituirsi come un infinito repertorio di citazioni, possa servire a “fecondare la realtà”, cioè, come scrisse Pasolini nel 1959, “a far parlare le cose”. I versi sono percorsi da una passione febbrile, ricchi di spunti, dall'impegno civile alle questioni politiche: la divaricazione tra l'io e il mondo, tra l'intellettuale borghese raffinato e il popolo, tra le istanze politiche e l'anelito religioso. La lettura di Sandro Lombardi è agganciata alla coreografia di Virgilio Sieni. Il testo straordinario di Pasolini rivive ed esplode nelle immagini evocate, nella quasi penombra, da Virgilio Sieni, a volte accompagnato da Lombardi, che per lo più si concentra nel fornire “colonna sonora” alla gestualità dell'altro. O forse è il contrario, la coreografia di Sieni si pone come “colonna visiva” alle parole recitate da Lombardi. In verità i due hanno collaborato all'unisono, creando un'opera in cui danza e recitazione si rapportano alla pari in un dialogo continuo, amplificandosi l'una con l'altra. La corporeità di Sieni è possente e, al tempo stesso, poetica, senza gravità, visualizzando quello che le parole dicono ma anche evocando quanto è sotteso alla parola stessa. Il movimento articola le tracce verbali, coglie le risonanze e i significati dei versi e li sublima. Il gesto è evocativo della parole e in sé profondamente poetico, lento e ieratico, oppure vivo e animalesco, sulle musiche di Angelo Badalamenti o su un silenzio carico di attesa. A volte i corpi inaspettatamente coincidono, a volte uno si genera dall'altro, a volte uno è appoggio e sostegno per l'altro, come quella deposizione così carica di rimandi e di emozionalità. E allora basta uno scatto delle mani a evocare il moto della coscienza, un braccio che si alza a chiedersi “ma a che serve la luce?” Il testo pasoliniano viene sviscerato in ogni parte, esaltato, evidenziato e, come voleva Calvino, trasformato in “coscienza vera tagliente, come una lama”: operazione fondamentale in questi tempi in cui le coscienze attuali sembrano avere troppo spesso perso il filo, come fossero posate di plastica. “È un brusio la vita, e questi persi in essa, la perdono serenamente, se il cuore ne hanno pieno: a godersi eccoli, miseri, la sera: e potente in essi, inermi, per essi, il mito rinasce... Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?” Commuove quel “me ne vado” finale scritto con i fiori: pace, equilibrio interiore. Infinita nostalgia. Visto a Jesi (AN), teatro Pergolesi, il 04 aprile 2008 Francesco Rapaccioni
Visto il
al La Goldonetta di Livorno (LI)