Le Donne Gelose è uno spettacolo indecifrabile. Proprio così, non un brutto o bello spettacolo, ma uno spettacolo indecifrabile. Uno di quegli spettacoli, a dirla tutta, che ti lasciano l’amaro in bocca per un’occasione sprecata.
Belli i costumi, belle le scene, un bel gruppo di attori affiatati, disegno luci attento e pulito, effetti scenici calibrati, niente di troppo, insomma, e quando uno spettacolo non eccede si può essere sicuri di avere, quantomeno, evitato il peggio.
Ma... Ecco, appunto. Ma.
Da dove viene l’amaro in bocca? Dal fatto che Giorgio Sangati, regista e deus ex machina di questa produzione del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, ha osato poco, ha lasciato il banchetto a metà, ha disegnato una tela, ma non l’ha dipinta, in altre parole ha sprecato una bella occasione.
Le Donne Gelose del veneziano doc più conosciuto al mondo si presta a molteplici letture, perché come il Campiello o La Bottega del Caffè mette al centro proprio Venezia e il suo difficile equilibrio di città che confonde spazi pubblici e privati. Per cui, con ottima sensibilità, Sangati riparte dalla città e dipana l’intera vicenda di madonna Lugrezia, di Boldo e Todero che per motivi diversi ne ricercano i favori e delle loro rispettive mogli Giulia e Tonina, la cui gelosia ispira il titolo, in una Venezia dove il Carnevale si sfilaccia in una triste e deludente teoria , mentre le maschere hanno fattezze di teschi, i palazzi sul Canal Grande sono neri e morsicati dall’umidità quanto le abitazioni delle calli più oscure, lo spazio infine è attraversato da passerelle del tutto simili a quelle che si vedono in città in un qualsiasi giorno di acqua alta che il buon Dio manda su questa città. Una Venezia distante dai fasti e le allegrie dei carnevali da cartolina, risucchiata dall’acqua che, a inizio spettacolo, si rovescia a dirotto stagnando sul palcoscenico e costringendo gli attori, di tanto in tanto, a finirci dentro. Sulle orme del mai troppo compianto Massimo Castri, Sangati riparte da Venezia e disegna una storia che si regge su un sottile filo, nero come le nervature nere che affumicano i mantelli di uomini e donne in scena, il filo insomma di una commedia dark.
Fin qui tutto bene. Ma il resto? Il resto è una messa in scena che per i primi settanta minuti è tutta chiusa nello spazio di una pedana in primo piano che di volta in volta, come ci annunciano le fin troppe didascaliche didascalie del display, diventa alternativamente camera di Giulia e di Lugrezia. I dialoghi tra le donne, le donne e i loro uomini, le ragazze innamorate del medesimo Baseggio, quest’ultimo e Lucregia si svolgono senza soluzione di continuità con delle costanti perdite di ritmo e una tensione scenica che si affievolisce sempre di più, in scena non succede nulla se non un profluvio continuo di parole ribattute con stanco automatismo e non un’idea che ci salvi dalla noia incombente. Poi finalmente la scena si apre e ci inoltriamo tra le calli vuote e percorse da maschere solitarie, fino ad arrivare al Ridotto dove si svolge quella che sembra essere la parte più accattivante dello spettacolo: ritmo, movimento, battute dalle intenzioni leggibili, l’occhio dello spettatore costretto a muoversi per pescare dettagli e non perdersi nulla.
Poi? Quello che ci aspetta è una seconda parte, un’altra ora di spettacolo dopo due della prima parte, in cui siamo tutti di nuovo incollati alla pedana dove si ripete la stessa messa in scena: camera di Giulia/camera di Lugrezia con relative didascalie, dialoghi asfittici e uno spettacolo che se nella prima ora non decollava adesso rischia di picchiare definitivamente al suolo. Gli attori, dal canto loro, si danno da fare e questo li spinge in maniera onestamente immotivata, a delle prove di gigioneria fuori luogo (una Giulia alla ricerca di imbarazzanti toni iperrealistici, un Boldo sempre fuori misura e straripante, a un Arlecchin disegnato in bianco e nero, ma che a sua volta non disdegna di fare del cabaret a buon mercato con il pubblico, ndr.).
Ecco, Le Donne Gelose di Sangati è una sorta di incompiuto circolare. Iniziano e finiscono allo stesso modo, ma lungo il cammino sono in grado di aprire squarci intensi e menare stoccate di punta a una società che allora come oggi rimane violenta nelle sue stesse pieghe, una violenza che si paga con il silenzio e la stabilità sociale. I quattrini, i duecento fiorini che guadagnerà Todero e i milleottocento ducati di Boldo e Lugrezia, sono la ceralacca che chiude e sigilla qualsiasi baratro.
La Venezia metafora di quello che si crede, ma invece non è avrebbe meritato maggior coraggio, come si è già detto, allora sì che gli applausi sarebbero stati meno incerti: il pubblico di Venezia la sa fin troppo lunga sulla sua città.