LE FARSE

Delle farse poco checoviane

Delle farse poco checoviane

Tra il 1884 e il 1891 Cechov scrive per il teatro otto atti unici alcuni dei quali da lui definiti scherzi o vaudeville. Si tratta di un teatro sensibilmente diverso dai drammi della maturità, nei quali con la consueta attenzione psicologica, descrive dei personaggi buffi in situazioni che buffe non sono. Personaggi borghesi messi alla berlina nella loro ipocrisia, nelle loro debolezze umane che hanno sì un aspetto comico ma che rimandano sempre a un preciso contesto sociale e storico nel quale spiccano per la piccolezza e le contraddittorietà (piccolo) borghesi. Una critica alla borghesia che piacerà tanto a Mejerchol'd, il quale, nel 1933,  in pieno regime stalinista, ne metterà in scena tre (L'anniversario, L'orso e La proposta di matrimonio), col titolo collettivo di 33 svenimenti (tanti sarebbero gli svenimenti presenti nei tre atti unici), gli stessi tre atti unici messi in scena da La fonte di Castalia che ha dato loro il titolo collettivo de Le Farse.
Un titolo programmatico che sembra prendere la mano alle due registe Caterina Mannello e Marika Murri.
Dopo un'apertura promettente infatti, con tutti gli attori (le attrici) in scena che si sovrappongono nel recitare brani che lo spettatore riconoscerà nei tre atti durante la loro esecuzione, e dopo un primo atto, La proposta di matrimonio, essenzialmente fedele al testo originale, negli altri due le registe sono intervenute pesantemente esasperando l'aspetto brillante del testo portandolo ai limiti di un comicità fine a se stessa.
Ne L'orso tutto l'inquadramento della pièce, incentrato sulla rinuncia di Smirnov per le donne, e sulla rinuncia della vedova Popova per gli uomini, che si trasforma in schermaglia di corteggiamento, è soppiantata da dei personaggi piatti come i cliché su cui sono costruiti. Smirnov è ridotto a un buzzurro che si tocca le parti intime, la sincerità della devozione di vedova di Popova non si capisce per i pesanti tagli fatti al testo mentre il vecchio domestico Luka diventa un giovane e avvenente cameriere gay che si lima le unghie (sic!).
Gli attori riescono solo in parte a contenere i danni di una drammaturgia così poco attenta al testo. Giuseppe Marzio e  Alessandra Falanga danno coerenza ai rispettivi personaggi de La proposta di matrimonio (sicuramente la pièce più riuscita), incarnando con credibilità due giovani rampolli borghesi che oscillano tra corteggiamento e petulanti battibecchi che il padre della ragazza descrive come felicità domestica.
Purtroppo ne L'anniversario, l'atto che soffre degli interventi più corposi sul testo e sulle sue atmosfere, l'imbarazzo di Sipucin un banchiere borghese che non sa sottrarsi alle insistenze di una donna anziana tanto da rimanerne stordito (arrivando a recitare a sproposito versi di rimembranza scolastica) si trasforma in una farsa greve, dove due popolane zingaresche (nel testo è una, ed è anziana) offrono i seni al suo sguardo pur di ottenere quel che vogliono (mentre il bacio tra Sipucin e il sottoposto Chirin diventa un bacio slavo sulle labbra con tanto di reazione schifata del sottoposto...).
Sorprende nell'approccio a questi testi il mancato rispetto per le psicologie femminili dei personaggi originali che le due registe sacrificano in nome di un contemporaneo comune sentire, di origine televisiva o da avanspettacolo, anche se mai volgare, che vuole le donne isteriche, manipolatrici e capaci di irretire gli uomini e costringerli a fare quel che vogliono, ben al di là delle intenzioni di Cechov che, invece, da un lato dà alle donne una dignità e una autonomia che in Italia, allora come oggi, vine a stento riconosciuta loro, e, dall'altro, prende alla berlina idiosincrasie e ipocrisie borghesi di entrambi i sessi.
La recitazione di Federica Santoro e Alesandra Falanga è, in questo terzo atto unico, fastidiosa e irritante perchè umilia la bravura che hanno dimostrato nei due atti precedenti. La loro interpretazione è appiattita su un cliché talmente trito e mal eseguito da essere degno della più ovvia delle barzellette. Molto brava invece Rossella Giammarinaro, nel ruolo della moglie di Sipucin, che dimostra di aver capito lo spirito dell'atto molto più delle altre due interpreti femminili (e delle registe...).
Giuseppe Marzio, al quale viene dato, forse troppo generosamente, il ruolo maschile principale in due dei tre atti, si dimostra un animale da palcoscenico istintivo e indomabile e la sua recitazione sanguigna, non sempre pulitissima, ben si addice a una riduzione registica tutta giocata sui toni superficiali della farsa.
Giovanni Bonacci, invece, dimostra una bravura che all'istinto coniuga una disciplina allenata, che gli permette di interpretare il vecchio padre di Natal'ja nel primo atto, secondo le consuetudini del teatro naturalistico di cui Cechov è uno dei gradi rappresentanti, e di affrontare  personaggi più compositi come il banchiere Sipucin con raffinata eleganza. Una eleganza che cozza però con l'interpretazione di Marzio che ci dà un Chirin un po' sgangherato e, soprattutto, con quella delle due popolane di cui si è già detto, colpa di una regia che non sa risolvere in questo terzo atto la cesura che ha creato tra commedia brillante da un lato (Bonacci e Giammarinaro) e avanspettacolo dall'altra (i rimanenti tre interpreti).
Nonostante questi forti limiti lo spettacolo nel suo insieme sa farsi vedere e diverte, grazie esclusivamente ai suoi interpreti, ma bisogna dimenticarsi dei testi originali di Cechov e affidarsi alla bravura degli attori e delle attrici che, invece di essere mandati sulla scena allo sbaraglio, senza una vera idea di regia, avrebbero meritato un impianto drammaturgico all'altezza della situazione.

Visto il 07-10-2011
al Manhattan di Roma (RM)