Macerata, cineteatro Italia, “Le Malentendu” di Matteo D'Amico
UNA QUESTIONE DI INCOMUNICABILITA'
Uno dei problemi più gravi del nostro tempo è l'incomunicabilità: barriere si frappongono fra gli esseri umani, anche della stessa famiglia, il non-detto, la difficoltà a far capire anche alle persone più care quello che siamo, quello che vogliamo, quello a cui aspiriamo. Più che un equivoco, il “malinteso” del titolo è un non-riconoscimento. La vicenda, tratta dall'omonimo dramma di Camus, ha il modello delle tragedie greche, dove il destino ha una parte essenziale e ineludibile e il sacrificio è inevitabile. Jan è partito giovanissimo da una realtà povera dell'est europeo, dove la madre e la sorella gestiscono un piccolo albergo; torna dopo venti anni a riscattare il suo abbandono, avendo raggiunto il successo e la felicità (si è sposato): vuole “salvare” la sorella e la madre, offrendo loro un futuro migliore, una possibilità altra. Marta (la sorella) ha cercato di ammassare una piccola fortuna economica uccidendo i clienti più facoltosi per derubarli, al fine di raggiungere il mare e il sole e vivere un riposo lontano (“ho letto che il sole rende i corpi splendenti dopo averli svuotati” dice alla madre), un desiderio di leggerezza contrapposto alla pesantezza della vita quotidiana. Jan torna, ma, nonostante le insistenze della moglie, non vuole svelare chi è alle familiari, vorrebbe lo riconoscessero loro, senza la necessità delle presentazioni, senza la mediazione delle parole e dei nomi. Quindi Jan non si dichiara, però né la madre né la sorella lo riconoscono. E lo uccidono. Alla fine il riconoscimento è inevitabile con il passaporto conservato dal vecchio servitore, il quinto personaggio che non parla mai, il domestico che si aggira nella pensione, guarda, osserva, lasciando negli spettatori il dubbio se lui abbia o meno riconosciuto Jan. A quel punto madre e figlia fanno i conti con la propria vita e decidono di suicidarsi (fuori scena). All'inizio e alla fine del dramma c'è Maria, la moglie del protagonista: prima cerca (invano) di convincere il marito a farsi riconoscere, dopo torna a cercare il marito e ha un confronto terribile con Marta. Infatti nel terzo atto il non-detto viene fuori esplicitamente, dopo le allusioni sottese precedenti.
Indubbiamente i nomi rimandano a suggestioni evangeliche o neotestamentarie (piuttosto che bibliche e veterotestamentarie). In due momenti Camus evoca la divinità. Dapprima nel confronto madre-figlia del primo atto (la Madre: “certe sere ho un certo desiderio di religione, di Dio”), a significare il senso di una vita passata chiusi in sé stessi, nel cercare sempre risposte dentro di sé e mai fuori. Poi nel finale, quando Maria, dopo le frasi terribili con cui Marta le ha rivelato l'accaduto (il “malinteso”), chiede pietà con una invocazione e la postura fisica (inginocchiata, a mani giunte): si avvicina il vecchio domestico che risponde con un “no”, determinando senza appello la impossibilità per l'uomo di attingere a un conforto che vada oltre la dimensione terrena e umana.
Non c'è librettista; lo stesso Matteo D'Amico cura il testo, sfrondando l'originale, rendendolo essenziale, soprattutto cercando il ritmo delle parole nelle esigenze della musica. Afferma così il primato del canto, perchè il libretto nasce da un testo teatrale, dove la musica deve creare il suo tempo. Pochi gli strumenti utilizzati, ma non si sente il bisogno di altro: al quartetto tradizionale si aggiunge il contrabbasso, con cui dialogano il clarinetto (due facce, il soprano e il basso misterioso, che accompagna la presenza del vecchio). A fare da collante la fisarmonica, con funzione quasi di basso continuo, che esprime la malinconia e un certo tipo di forza emotiva, aspra e dura (invero non si tratta di una fisarmonica ma di un bayan, strumento russo con due pulsantiere anziché tastiera e pulsantiera).
Saverio Marconi racconta la storia e lascia volutamente molti dubbi e possibilità di interpretazione. La scena di Gabriele Moreschi, illuminata da Valerio Tiberi ed esaltata dalla location nel cineteatro Italia, è la pianta di una casa vista dall'alto, col disegno dei muri per terra, dove è possibile per lo spettatore vedere contemporaneamente tutti gli ambienti, avendo però chiara la loro suddivisione. Un luogo circolare, tondo, dove una boccia d'acqua con un pesce sopra una scrivania esprime quel desiderio bramoso di mare, ma, che, al tempo stesso, implica una circolarità senza via di uscita, senza possibilità di scampo. Anche i personaggi girano in tondo, senza riuscire a toccarsi mai (per un attimo Jan e la madre sembrano avvicinarsi sino a sfiorarsi, ma Marta irrompe in mezzo a loro e nega questa possibilità), come anch'essi predestinati a percorsi ripetitivi e diuturni. La regia di Marconi, fortemente teatrale, rivela un lavoro capillare sul testo e con i cantanti, in modo da esaltare e trarre il massimo dalla partitura musicale.
La scrittura musicale di Matteo D'Amico è classica, ricca di rimandi e suggestioni emozionali, tesa e febbrile per esaltare la drammaturgia, fondandosi su una stretta correlazione tra parola e musica. Esprime in modo immediato il senso della incomunicabilità, della vita desolata, l'angoscia e la ferocia di quei rapporti umani.
Guillaume Tourniaire entra nella partitura e la vive con intelligenza, scavando fra le pagine con dedizione non comune. Bravi i musicisti, il Quartetto Bernini (Marco Serino e Yoko Ichihara ai violini, Gianluca Saggini alla viola e Valeriano Taddeo al violoncello), Massimo Ceccarelli (contrabbasso), Mirco Patarini (clarinetti) e Dario Flammini (fisarmonica).
Adeguato il cast per voci e immedesimazioni attoriali. Marta (Sofia Solovij), rigida e aspra, feroce e inflessibile, non vuole avere a che fare con il mondo esterno, è scortese col fratello che tenta un approccio; non ha costruito nulla, se non vivere con ordine una vita da sola con la madre. È lei che caratterizza i confronti, con la madre, con il fratello, con la cognata. Durissima l'aria con cui si sfoga contro il fratello, che le ha rovinato la vita e le ha tolto l'ultima possibilità, quella di fuggire verso il sole e il mare.
La Madre (Elena Zilio) parla sempre di stanchezza, di necessità di riposo e la sua presenza mitiga l'implacabilità della figlia.
Jan (Mark Milhofer) è, per certi versi, lo “straniero”; è buono, forse per rielaborare precedenti colpe (l'abbandono): alla sorella, indispettita dalle sue domande, replica: “Mi sembrava che non fossimo così estranei l'uno all'altro”. Esemplare l'inizio tutto da solo del secondo atto.
Maria (Davinia Rodriguez) è l'unica innocente. Il vecchio domestico (Marco Iacomelli) è presenta muta e costante, una strana e indefinita-indefinibile entità, forse la vita, forse il destino, forse Dio (gioca con dei pupazzetti come se fossero i protagonisti e lui l'arbitro delle loro vicende): un'entità che forse sa sin dall'inizio quel che succederà, ma non può/vuole impedirlo e nasconde il passaporto di Jan per far sì che tutto accada come predestinato.
L'opera è stata rappresentata in prima mondiale assoluta ed è una commissione d'opera dello Sferisterio Opera Festival. Peccato due sole recite.
Visto a Macerata, cineteatro Italia
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Italia
di Macerata
(MC)