Nella prefazione alla prima edizione del libretto delle Nozze di Figaro (Vienna 1786), Da Ponte annuncia l’intenzione di offrire al pubblico «un quasi nuovo genere di spettacolo». In effetti la «comedia per musica tratta dal francese in quattro atti» (così il frontespizio) è un geniale tentativo di trasporre in chiave operistica non solo la trama, ma il respiro, l’arguzia e la sensualità della scabrosa creazione di Beaumarchais, già accompagnata da un cospicuo succès de scandale. Nell’intento di «esprimere tratto tratto con diversi colori le diverse passioni» (spiega ancora Da Ponte), gli autori danno vita a una partitura di straordinaria ricchezza, nella quale l’azione si invera nella musica e attraverso di essa, i suoni traducono gesti e moti interiori e le forme si lasciano modellare duttilmente per scandire la mutevole pulsazione della vita tra bassezza e nobiltà, calcolo e passione.
Questa incoercibile vivacità viene restituita con bravura da Chiara Muti, che per il San Carlo di Napoli firma una regia spigliata e scattante del capolavoro mozartiano. L’azione è attraversata da un flusso continuo di energia ed è animata da movimenti nervosi e guizzanti, cesellati con gusto e con costante attenzione alle ragioni della musica. Rincorse e baruffe, sberleffi e dispetti accentuano il lato farsesco della vicenda, ma la leggerezza complessiva non scade mai nella banalità. Alcune idee possono non essere condivise. Alla fine del coro Giovani liete (scena I.8), ad esempio, i contadini e le contadine si assiepano minacciosi intorno al conte e brandiscono forconi e roncole per rappresentare un fermento di protesta antinobiliare dietro il velo gioioso della festa; la scelta appare invero forzata, in linea con una lettura ormai datata del libretto e della sua fonte in chiave ‘rivoluzionaria’. Sarebbe stato più interessante, semmai, sondare e sottolineare l’alleanza tutta femminile tra la Contessa e Susanna che, pur vissuta conflittualmente dall’aristocratica («O cielo! A quale / umil stato fatale io son ridotta / da un consorte crudel che, dopo avermi / con un misto inaudito / d’infedeltà, di gelosie, di sdegni / prima amata, indi offesa e alfin tradita, / fammi or cercar da una mia serva aita!», scena III.8), costituisce un interessante tratto di trasversalità sociale.
Nell’insieme, tuttavia, lo spettacolo funziona e cattura l’attenzione dello spettatore. In ciò fanno la loro parte le scene di Ezio Antonelli, che nel corso dei quattro atti combina e dispone elementi architettonici lievi e trasparenti, scheletri di strutture che rendono labile il confine tra interno ed esterno e agevolano il transito e la disposizione dei personaggi, sobriamente abbigliati secondo i canoni della moda settecentesca da Alessandro Lai.
Assai meno convincente appare la guida musicale del pur titolatissimo Ralf Weikert. La sua direzione è opaca, ingessata, priva di energia. Imperfetta, pertanto, è l’intesa con i cantanti, che invano attendono dal podio un avallo al gioco delle esitazioni e degli slanci.
Se la bacchetta del maestro austriaco tende a contenere il flusso sonoro in un alveo preciso ma inerte, a correggere il tiro provvedono fortunatamente gli interpreti, tutti dotati di notevoli risorse attoriali e capaci di valorizzare il gioco scenico. Sul versante femminile , spicca per bravura e per gusto Rosa Feola nei panni di Susanna. Davinia Rodriguez, chiamata in extremis a sostituire Cinzia Forte nel ruolo della Contessa, ha un temperamento forse più adatto al repertorio ottocentesco, ma riesce a integrarsi armoniosamente nel cast. Grande successo riscuote Marina Comparato, che trova il giusto equilibrio tra innocenza e malizia per dare voce e vita a Cherubino. Il patetismo di Barbarina è tratteggiato con sicurezza e raffinatezza da Giulia Semenzato. Un po’ in ombra resta la Marcellina di Laura Cherici.
Molto bravi Alessandro Luongo e Simone Alberghini, che riescono a far emergere con incisività la personalità dei rispettivi personaggi, Figaro e il Conte. Fabrizio Beggi è un Bartolo energico, preciso e a tratti imperioso. Vocalmente incerto appare il Basilio di Bruno Lazzaretti. Riuscita la caratterizzazione di Antonio fornita da Matteo Peirone. Il ruolo di Don Curzio, infine, viene ben disimpegnato da Saverio Fiore.