Napoli, teatro di San Carlo, …

Napoli, teatro di San Carlo, …
Napoli, teatro di San Carlo, “Le nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart L’ESSENZIALE E MALINCONICA FISIONOMIA DELL’AMORE Le nozze di Figaro sono la straordinaria invenzione musicale di una drammaturgia in cui la musica trascina la commedia avvolgendola come un vortice che ne rinnova le situazioni e le disposizioni d’animo, creando una sublime armonia tra testo e musica. La tinta più affascinante ed attuale della commedia è l’umanità profonda, la partecipazione responsabile alle scelte sentimentali, il credere in ideali di merito e di onestà, nella libertà come valore primario (nel rispetto delle libertà degli altri). Così Nozze rappresenta il momento di certo più ottimistico e vitalistico della Trilogia (oltre che il primo temporalmente), da cui emerge la coscienza della necessità di fare liberamente le proprie scelte sentimentali. L’azione, collocata in una “folle giornata”, si svolge dalla mattina alla sera, in maggior parte nello splendore del mezzogiorno. Gigi Proietti, nella sua regia all’Opera di Roma, l’aveva ambientata in un lungo tramonto autunnale, in cui i personaggi, più che dalla frenesia delle nozze, erano presi dall’angoscia causata dalla paura di restare soli. E anche Martone sceglie una tinta autunnale e chiaroscurale per le sue Nozze, essenziali e velate di malinconia, in cui i personaggi sono in balìa degli eventi, “foglie al vento della vanità e della storia”, come le foglie secche sul pavimento del palcoscenico, come il grande tralcio di vite dalle foglie ingiallite che pende dall’alto e si staglia, solitario, sul fondo della scena. E se mi ha convinto l’ambientazione crepuscolare, le scelte registiche mi hanno lasciato più dubbi, soprattutto nei movimenti dei protagonisti. L’impostazione ricalca quella delle precedenti “Così fan tutte” e “Don Giovanni”, dando unitarietà alla Trilogia, a cominciare dalle “protesi” al palcoscenico, due braccia laterali che circondano l’orchestra, permettendo di utilizzare anche la platea (una situazione scenica vista però fin troppe volte). La scenografia è ridotta all’essenziale, una balconata in fondo, due rampe di scale ed una lunga tavola con tante sedie di stili ed epoche diversi, evidentemente simbolo del banchetto nuziale, sempre presente al centro della scena, anche durante il secondo atto (che però è ambientato nell’intimità della camera della Contessa, costretta a cantare la meravigliosa cavatina lunga per terra su due grandi cuscini quasi in braccio alla prima fila di poltrone). L’abuso dei “prolungamenti” del palco verso la platea crea altre situazioni poco felici, come il duetto Susanna-Marcellina, che è più uno scontro che un incontro, e che viene cantato con le due separate dalla buca orchestrale, lontanissime l’una dall’altra, troppo distanti. Convincente, invece, il lavoro del regista sui caratteri, che già in Mozart non sono personaggi ma persone e Martone ne fa figure vive con caratteri spiccati, scolpiti con assoluta chiarezza, per ampio merito di un buon cast, giovane ed omogeneo, cantanti affiatatissimi, bravi nel seguire il gioco teatrale anche nei momenti più intesi dal punto di vista del canto. Il Conte di Almaviva, benché giovane come Figaro, in genere appare da lui distante, non solo per via del privilegio di classe. Qui invece il Conte è accomunato a Figaro dalla passione d’amore e da quel tocco di gelosia che muove gli eventi della giornata. Non è più un uomo statico e rigido, ma prontissimo all’ira, che scatta subito ma che non porta a lungo il rancore. Il suo atteggiamento è “ingessato”, poco provato dalla necessità di gesti umani. Poco illuminato, in effetti, e per questo pieno di rabbia. La furia dongiovannesca del Conte si risolve poi in un carattere capriccioso e geloso, molto umano. Il personaggio è quello che offre a Martone maggiori possibilità di lavoro e Pietro Spagnoli lo asseconda alla perfezione toccando tutte le corde, con una capacità attoriale e una presenza scenica notevoli, oltre alla voce duttile e morbida, bellissima per colore ed estensione. Alcuni esempi: nel primo atto la sorpresa seguita dalla rabbia che lo soverchia in un secondo quando scopre Cherubino nascosto da Susanna, arrivando a minacciare uno schiaffone al “picciol serpente”. Nel secondo atto, il più impegnativo, riuscitissimo, passa dalla gelosia per il sospetto che non sia Susanna nascosta nel camerino, alla rabbia nel sentir nominare Cherubino, all’ira nell’apprendere che proprio il paggio si trova nel camerino (tanto che si arma di fucile prima di sfondare la porta), al sommo stupore di fronte a Susanna, alla stizza nell’allontanare Rosina che approfitta per abbracciarlo del suo momentaneo pentimento. Nel recitativo del terzo atto Spagnoli alterna sapientemente nella voce toni decisi (“Io voglio di tal modo punirvi”) e toni dubbiosi (“Ma s’ei pagasse la vecchia pretendente”), ma nell’attacco dell’aria “Vedrò mentr’io sospiro” monta la rabbia e rovescia dal tavolo tovaglia, piatti e bicchieri. La ripetizione dell’incipit “Vedrò” denota un crescendo emotivo (nonostante la brutta idea registica di farlo vestire nel mentre) e il verso-chiave “Tu non nascesti audace” è sottolineato in modo illuminato da una scansione sillabica e tonale, fino all’esibizione della padronanza e della bellezza dei gorgheggi del finale “E giubilar mi fa”. La naturalità, con cui la forza ed il furore erotico costretti dentro la sfera dei comportamenti sociali esplodono nell’aria, spinge Spagnoli ad affrontare “Vedrò mentr’io sospiro” con una azzeccata potenza, quasi verdiana. Spagnoli è eccellente, anche perché riesce a trovare un “nuovo” Conte, diverso dalle recenti interpretazioni al Carlo Felice e alla Scala. Sempre nel terzo atto, ma alla fine, il Conte è visibilmente annoiato dall’ascoltare il coro dei contadini, poi, all’improvviso, i suoi occhietti furbi si illuminano quando Susanna gli porge di nascosto una lettera, lasciando intendere un intrigo piccante. Nel quarto atto il suo “Contessa, perdono” è cantato con tono così supplichevole e partecipato sentimentalmente che la Contessa non può fare altro che “E dico di sì”, più per le tonalità ed i colori con cui canta Spagnoli che per l’andamento del plot. Al Conte e alla Contessa, infatti, spetta l’essenza della Trilogia, il perdono finale, malinconico, maturo, consapevole, pieno d’amore, dell’amore che ha superato mille perigli e ne è uscito non solo indenne, ma anche rafforzato, indistruttibile. Bella l’azione del quarto atto, quando la Contessa nei panni di Susanna (le due non si travestono ma si scambiano i vestiti, rendendo così più credibile la confusione) fa lo spogliarello a un Conte in visibilio, semplicemente sfilandosi una calza, una bella scena che rimanda all’indimenticabile film “Ieri, oggi e domani” con Sofia Loren e Marcello Mastroianni. La Contessa ha un registro espressivo diverso: disperazione e sentimento tragico costituiscono la grandezza del personaggio, che non riesce a non amare il Conte, ma non riesce neppure a separarsi da lui (“né con te né senza di te”, dice Fanny Ardant a Gerard Depardieu in “La signora della porta accanto”). La cavatina “Porgi amor qualche ristoro”, pur nella poco felice ambientazione scenica e nella distrazione di Susanna che sfaccenda intorno, è cantata da Carmela Remigio con rara partecipazione emotiva, con toni bruniti e passionali di grande intensità. Nella successiva grande aria “Dove sono i bei momenti” il Conte è presente sulla terrazza ed è un’immagine particolarmente incisiva: lo sarebbe stata ancor di più se il Conte fosse stato fermo di spalle per tutta la durata dell’aria, non solo a momenti, invece di muoversi ed incontrare persone. Anche qui la Remigio raggiunge risultati di vera eccellenza, compete alla pari con l’oboe che la accompagna e la voce calda e suadente rende incredibile come il Conte possa pensare ad altre donne, oltre la moglie. Mozart immaginava un amore dove sentimento ed erotismo non erano disgiunti e attraverso la figura nobilissima della Contessa lancia un messaggio che arriva fino ai giorni nostri (di tutt’altra specie è l’atteggiamento del Conte, l’erotismo come prevaricazione, ma anche lui alla fine cambia, umanamente). La nobiltà purissima dei sentimenti della Contessa contrasta in questo allestimento con l’apparire, a causa del costume di scena (una camicia da notte che indossa in pratica per tutti gli atti), troppo dimessa, e dunque arrendevole, poco volitiva e combattiva. Susanna ha gli occhi lucidi e vispi di Cinzia Forte, che delinea un personaggio concreto e frizzante. È lei il perno dell’azione lungo i primi tre atti e nel quarto si scopre una inattesa profondità sentimentale, una proiezione verso l’amato Figaro: Susanna non è un’eroina, ma è una donna e si dichiara in modo essenziale e per nulla retorico. L’aria “Deh, vieni, non tardar” esprime appieno il suo ruolo, una funzione trainante, anche rispetto all’orchestra: Susanna, sia come oggetto del desiderio, sia come soggetto desiderante, muove il dramma, domina l’intrigo e supervisiona le peripezie. La voce di Cinzia Forte si dispiega libera nella forma ed è una presenza tanto leggera e toccante da sembrare spirituale. A riportarlo a terra ci pensa un modo lascivo di interpretare l’aria, allungata su un fianco in proscenio, con la veste scesa a scoprire una spalla. L’esecuzione del recitativo accompagnato e dell’aria suddetta mostrano una voce limpida e ben emessa, gli archi pizzicati e l’eco dei fiati sottolineano abilmente le nuance di cui la Forte è padrona. Nella deliziosa “Venite, inginocchiatevi”, in cui l’azione non subisce un arresto a causa dell’aria nè una pausa nello sviluppo del dramma, la Forte denota anche di essere ironica e spigliata, qualità necessarie a delineare con il massimo della credibilità il suo personaggio. Figaro è un personaggio positivo, senza dubbio, anche se non lo sarebbe senza Susanna vicino, che subito lo informa delle intenzioni del Conte, consentendogli così di affrontarlo da pari a pari: infatti la partecipazione di Figaro non è mai risolutiva. La cavatina “Se vuol ballare signor Contino” è affrontata da Simon Orfila con il coraggio schietto che lo anima, tanto che nel pronunciare “il chitarrino le suonerò” afferra una sedia con fare minaccioso, pensando al Conte e cantando “se vuol venire nella mia scuola, la capriola le insegnerò” il tono di sfida è evidente. Spirito mordace, invece, quando canzona Cherubino mimandone le gesta future al campo di battaglia in “Non più andrai farfallone amoroso”, nella franca tonalità del do maggiore, fino all’aria “Aprite un po’ quegli occhi”. Figaro è positivo perché è sensibile e crede alla ragione femminile, con una prontezza che non è consentita al Conte. Figaro è espressione del bisogno individuale di fondare un proprio nucleo familiare, ma, cedendo alla propria gelosia, ha perso la sua iniziale positività, insieme alla fiducia per Susanna. L’amabile astuzia di Figaro è ben resa da Simon Orfila che non gigioneggia nel ruolo, pur mostrandosi padrone del ruolo stesso, vocalmente ed attorialmente. Cherubino per Martone non è di certo il Don Giovanni del futuro, come lo voleva Søren Kirkegaard nella sua famosa interpretazione esistenzialistica e romantica dell’opera mozartiana, ma è l’essenza della giovinezza, una fonte di giovinezza per tutti i personaggi: è un ragazzo sbarazzino, uno scugnizzo, attratto da ogni donna e in preda ad una tempesta ormonale dovuta all’età, a momenti impacciato. In lui domina una giocosità che emerge da ogni gesto: solo un giovanissimo può comportarsi con la sincerità e la sensibilità di Cherubino, per cui non riesce a nascondere né a controllare le proprie emozioni, anzi desidera ardentemente smarrircisi, poiché si sta appena affacciando a una vita nuova, a una vita adulta che però ancora non gli appartiene. E il risultato è un tipico alternarsi di stati di euforia e di depressione. Bravissima è Marina Comparato, nella difficoltà di destreggiarsi in un ruolo quasi arlecchinesco. “Non so più cosa son cosa faccio” è cantata con forza e stupore. È però più il turbamento giovanile che l’inizio della carriera di un libertino: infatti quando arrivano le contadine e Cherubino si infila sotto la gonna di alcune di loro, Basilio lo prende per le orecchie e lo costringe a sedersi su una sedia. La Comparato affronta la bella arietta “Voi non sapete” in modo ottimale, accompagnandosi con grandi gesti plateali molto efficaci per esprimere il senso di ciò che canta: la voce è pulita e controllata, passando dalla brama e dall’incredulità di “ricerco un bene fuori di me, non so chi’l tiene non so cos’è” al finale “voi che sapete che cosa è amor, donne, vedete s’io l’ho nel cor” emesso in un sussurro palpitante. Eppoi tanto di cappello per i salti nella buca dell’orchestra, che denotano l’agilità non comune della cantante. Barbarina introduce il tema del quarto atto e la conclusione dell’opera: un viaggio interiore, nei sentimenti, un viaggio dall’esito incerto. Paola Cigna è convincente nella cavatina “L’ho perduta, me meschina”, mentre cerca con la lanterna una spilla, oppure.. quello che tutti cercano dall’inizio, l’amore, la compagnia, l’affetto. Bruno Lazzaretti è Basilio e affronta con sicurezza, mentre gioca a carte con Bartolo, l’aria del quarto atto in cui in pratica si risolve la sua parte. Bartolo è il bravo Domenico Colaianni. Non si capisce perché nell’aria “La vendetta, oh, la vendetta” Bartolo sottopone Marcellina a visita medica, con tanto di auscultazione toracica e sciroppo lenitivo: lui è un uomo di legge e non di medicina. Forse la spiegazione è che la Marcellina di Cinzia Rizzone appare vocalmente debole, soprattutto nel registro basso (dopo l’aria “Il capro e la capretta” cade persino addormentata a terra). Con loro Gianluca Ricci (Antonio), Aldo Orsolini (don Curzio), Cristina Casillo e Annamaria Napolitano (due contadine). L’orchestra del San Carlo si adegua alle scelte di Martone e privilegia le mezze tinte, indugia nei tempi delle arie e dei recitativi accompagnati. Jeffrey Tate ottiene una fine ed elaborata concertazione che mette in evidenza le voci dei cantanti e le delicate strumentazioni della partitura ottenendo morbide sonorità crepuscolari. Il Maestro riesce ad imprimere all’orchestra la giusta velocità, cesellando i momenti più intimi ed enucleando gli strumenti solisti, soprattutto fagotto e oboe. In alcuni punti si è avvertita una certa discontinuità nella conduzione. Coro e corpo di ballo del San Carlo. Teatro sold out e pubblico entusiasta, con le signore in platea in visibilio per Pietro Spagnoli. FRANCESCO RAPACCIONI Visto a Napoli, teatro di San Carlo, il 12 marzo 2006