La Fenice ha messo in cantiere la trilogia Mozart-Da Ponte utilizzando un unico impianto scenico, progetto interessante che ha avuto compimento già con Don Giovanni e ora queste Nozze, in attesa del Così fan tutte del prossimo carnevale e dell'intera trilogia nella primavera del 2013 con gli spettacoli intrecciati nelle date.
Damiano Michieletto ci ha abituato a messe in scena che inizialmente spiazzano lo spettatore ma che consentono di leggere le opere da un inedito punto di vista, scoprendo nuove prospettive e ulteriori chiavi interpretative, sempre nella credibilità dell'ambientazione, mai scontata né gratuita pur in alcune forzature, peraltro sempre giustificate intelligentemente.
All'apertura del sipario, durante l'ouverture, il cadavere della Contessa è steso a terra e tutti sono basiti, immobili, increduli, fissati in un attimo che blocca il respiro. Poi la scena si anima e tutti se ne vanno, cominciando con le cameriere e finendo con il Conte: Cherubino “sveglia” la Contessa e il flash-back ha inizio con lei che ha in mano il velo nuziale e lo apporrà sulla testa di Susanna. Quindi la rappresentazione si pone come un dejà-vu della giornata (drammatica, non folle) che ha portato alla morte di Rosina, invero si scoprirà trattarsi di suicidio. Questo obbliga il regista a rileggere il plot in modo cupo e drammatico, togliendo ogni spunto comico o minimamente divertente e calcando la mano sugli aspetti ansiogeni, irrisolti, inquietanti. Questo potrebbe anche starci, ma non funziona l'idea di mettere sul palco quei personaggi che vengono evocati nel libretto: ciò crea confusione e un effetto surreale che non giova alla messa in scena.
Nel terzo atto invece del bosco siamo in sala da pranzo con le sedie sparse in giro; quando tutto si ricompone Rosina resta di lato; nel chiederle perdono, il Conte le appoggia sulle spalle nude il proprio cappotto che però scivola a terra; tutti si siedono a tavola tranne Rosina che si avvicina alla finestra, sale sul davanzale e si butta di sotto: solo Cherubino sembra accorgersene fra l'indifferenza generale e fa un gesto per fermarla, ma in ritardo e non abbastanza convinto. E la folle giornata, vissuta tra impulsi rabbosi, visionario onirismo e isteria, finisce in tragedia.
La scena di Paolo Fantin usa lo stesso apparato girevole del Don Giovanni, solo che qui la tappezzeria è azzurra. Gli ambienti sono un'ampia sala da pranzo con tavolo ovale e grande finestra sul fondo, la camera (senza letto) della Contessa con finestra di lato, un ambiente di passaggio privo di finestre. I costumi di Carla Teti datano l'azione all'Ottocento, anche se i riferimenti temporali sono poco marcati. Le luci di Fabio Barettin sono assai rilevanti per il risultato finale, contribuendo efficacemente alla cupezza dell'ambientazione, divenendo algide o tingendosi di giallo o azzurro per i momenti di non-azione (quando ombre inquietanti si allungano sulle pareti), essendo invece estremamente naturalistiche per il resto, compresa la luce naturale che filtra dalle finestre.
Antonello Manacorda dirige l'orchestra con mano poco leggera, privilegiando, in sintonia con la regia, tonalità cupe, nordiche, che divengono quasi claustrofobiche nel finale. Il colore orchestrale ne risente e non convince: manca quella fresca gioiosità che è il segreto di una partitura dove il dialogo tra voci e strumenti è il mezzo per scandagliare le emozioni dei personaggi.
I protagonisti sono tutti vocalmente appropriati, seppure nessuno si imponga sugli altri. Markus Werba è un Conte dandy, gli occhialetti metallici tondi da intellettuale e i lunghi capelli pettinati all'indietro; il baritono usa le proprie fisicità e vocalità per plasmare un Conte febbricitante e violento, represso e per questo manesco ai limiti del sadismo, incurante di quello che prova chi lo ama (forza la porta del camerino con una pistola in mano, cerca di strangolare la moglie con la tenda, schiaffeggia sonoramente tutti); la voce è bella come sempre, la formazione liederistica gli consente particolarità interessanti. Carmela Remigio è una Contessa in profonda depressione, sempre in camicia da notte, che non riesce a superare la scomparsa dei “bei momenti” (evocati durante un nubifragio alla finestra) e la conferma che non vero amore fu ma sola illusione (“Porgi, amor, qualche ristoro al mio duolo, a' miei sospir. O mi rendi il mio tesoro, o mi lascia almen morir” diventa così una dichiarazione di intento). Alex Esposito è l'unico del cast che prova a gigioneggiare col suo Figaro e la scena dell'agnizione diventa inevitabilmente comica grazie alla sua faccia mobilissima ed espressiva. Brava Rosa Feola, una scoperta la sua Rosina vivace e fresca nel contegno e nella voce. Giusto ma poco in evidenza il Cherubino di Marina Comparato in abito da teen ager d'epoca. Non sempre a fuoco i ruoli di contorno. Fatica Bruno Lazzaretti, al punto che l'aria di Basilio poteva essere tagliata. Poco convince il giovane e aitante Antonio-portiere di Matteo Ferrara. Squillante e frizzante la Barbarina di Arianna Donadelli. Con loro Elisabetta Martorana (Marcellina), Umberto Chiummo (Bartolo) ed Emanuele Giannino (Curzio). Completano il cast Nicoletta Andeliero, Francesca Poropat (due giovani) e il coro preparato da Claudio Marino Moretti sempre invisibile in buca.
Pubblico numeroso ma tiepido, pochi applausi.