Sono numerose le ingenuità di Le nozze in villa, opera buffa in due atti d'un giovanissimo Donizetti. La quarta del suo catalogo, dopo la perduta Una follia; ed al pari di quest'ultima, basata su uno squinternato libretto dell'amico Bartolomeo Merelli, il futuro celeberrimo impresario.
Fatto sta che, nell'ambito del progetto #Donizetti200 - messa in scena annuale di una partitura sconosciuta del grande bergamasco, allo scoccare dei due secoli d'età - il festival Donizetti Opera ha promosso il recupero dal vivo di un titolo confinato nei testi musicologici: solo dieci le righe accordategli da William Ashbrook nella sua storica monografia donizettiana.
Al quale, nondimeno, si può riconoscere una simpatica comicità, molto occhieggiante ai prototipi rossiniani, nonché una certa freschezza delle melodie e delle invenzioni strumentali, frutti della fertile immaginazione dell'autore e della buona scuola del suo maestro Mayr. Non è un lavoro memorabile, non resterà in repertorio, ma valeva la pena di vederlo. Anche se purtroppo solo in streaming, su Donizetti WebTV.
Il lavoro di un esordiente
Il soggetto de Le nozze in villa deriva da una commedia del tedesco Kotzebue, I provinciali. Portata in scena nel 1819 a Mantova per la stagione di carnevale, girò pochissimo: apparve l'anno dopo a Treviso, due anni dopo a Genova, per poi sparire.
La produzione del Teatro Donizetti, che si avvale dell'edizione critica di Edoardo Cavalli e Maria Chiara Bertieri, tiene conto dell'uso del diapason più basso dell'epoca, e prevede un apparato strumentale storicamente informato realizzato dalla snella Orchestra Gli Originali, nata a questo scopo. La troviamo guidata con squisita duttilità, colorata verve e tocco leggero da Stefano Montanari; il quale immette nell'impresa anche un buon pizzico di humour, visto che il concertatore è talvolta chiamato dalla regia ad interagire nell'azione.
Per gli interpreti non si richiedono doti vocali stratosferiche, ma recitazione sciolta, buon spirito e grande affiatamento. Direi che ci siamo: i baritoni Omar Montanari e Fabio Capitanucci – Petronio e Trifoglio, le due figure buffe che spingono l'azione – sono godibilissimi, raggiungendo vette di bravura nello spassoso duetto “Di sì bel nodo, amico”, dalla gaiezza squisitamente rossiniana. Gaia Petrone è una piccante, volitiva Sabina; Giorgio Misseri pennella a dovere, anche vocalmente, l'amoroso Claudio; Manuela Custer è una sapida Anastasia, nonna della sposa. Completano il cast Daniele Lettieri e Claudia Urru (Anselmo e Rosaura), ed il Coro Donizetti Opera.
Due vecchi barbogi, due giovani innamorati
La trama segue un copione classico, il solito matrimonio combinato tra due amici anzianotti, mentre la ragazza interessata ama già un giovanotto della sua età. Vincerà lei, naturalmente. Manca il manoscritto originale, ma ci sono le fonti d'epoca. Dove però difetta interamente il quintetto del secondo atto, "Aura gentil che mormori”: a questo punto hanno provveduto Rocco Tanica e Elio delle Storie Tese, in collaborazione con Enrico Melozzi, a darcene uno ex novo, pertinente e godibilissimo nel suo gustoso ondeggiare tra antico e moderno.
La spiritosa e vorticosa regia del giovane regista Davide Marranchelli prende spunto dalle pantagrueliche, pacchiane feste nuziali “alla napoletana”, quelle approntate da Don Antonio Polese, il mitico “Boss delle Cerimonie”, rese famose dalla TV. Obiettivo centrato, ed eccoli dunque i provinciali del nostro tempo: in un tripudio di kitsch sguaiato, Sabina è la fotografa ufficiale, Trifoglio un wedding planner, Petronio il sindaco con tanto di fascia, e via così. A completare l'opera provvedono le fantasiose, iperboliche invenzioni sceniche di Anna Bonomelli, i vivacissimi costumi di Linda Riccardi, le luci di Alessandro Carletti.