Le nuvole di Aristofane è la commedia più famosa e cruciale di tutta la produzione del celebre comico greco. Famosa perchè la presa in giro di Socrate in essa contenuta, venne vista da Platone come vera causa della morte del filosofo (come riporta nell'Apologia); cruciale, oltre che per motivi filologici che qui tralasciamo (due stesure diverse, la seconda, quella a noi giunta, probabilmente mai andata in scena) perchè rappresenta in pieno la poetica del conservatore Aristofane e la sua preoccupazione per l'educazione dei giovani ormai inefficace e deleteria. La trama semplice e (per il pubblico a lui coevo) di immediata comprensione, vede contrapposti Strepsiade a suo figlio Fidippide. Strepsiade è di origini contadine ma ha sposato una cittadina e loro figlio Fidippide è il classico esemplare di quella gioventù corrotta, che tanto preoccupava Aristofane, dedito al gioco dei cavalli per il quale ha indebitato il padre a dismisura. Per cercare di sottrarsi ai debitori Strepsiade si rivolge al pensatoio di Socrate, dove sa che si insegnano due discorsi, uno Maggiore (che di per sé sarebbe superiore ma non porta ad alcun risultato utile), l’altro Minore (di per sé inferiore ma che porta ad averla vinta in ogni sorta di cause). E' dal secondo che Strepsiade spera di trovare modo di avere la meglio sui creditori e non pagare i suoi debiti. Le sue origini contadine e la sua ingenuità, però, non lo rendono un allievo capace. Le nuvole (per Socrate le uniche vere divinità, giunte al pensatoio sotto sembiante femminino) consigliano al contadino di mandare da Socrate Fidippide. I due Discorsi si contendono il ragazzo in un agone, che vince il discorso Minore Fidippide viene istruito secondo i suoi precetti.
Apprese le nuove norme comportamentali il ragazzo decide di picchiare il padre e anche la madre. Furioso per come gli hanno reso il figlio, Strepsiade dà allora alle fiamme il Pensatoio di Socrate, tra le grida dei discepoli.
Come ogni commedia ateniese anche Le nuvole vive e ha senso all'interno della vita cittadina di Atene ed è difficile per uno spettatore di oggi comprendere i riferimenti il cui bagaglio culturale era invece alla portata di ogni ateniese. Forse per questo (ma non solo) la commedia antica ateniese viene sempre messa in scena con delle sensibili forzature del testo.
Antonio Latella, uno dei nomi più di spicco del teatro italiano, in patria e all'estero, ha un approccio apparentemente molto forte sul testo, che ha destato più di qualche perplessità.
Per fare un discorro contemporaneo Latella cerca un bagaglio culturale per lo spettatore adeguato e lo trova nella televisione, mediata attraverso l'irriverenza grottesca del cabaret (genere rinvigorito, in una forma banalizzante, dalla tv berlusconiana). Palco vuoto, tranne un siparietto, di quelli giocattolo che si vedevano nelle stanze dei giochi di famiglie borghesi di inizio novecento, attori di nero vestiti (come Raimondo Vianello e accoliti nell'omaggio-parodia a Brecht in Noi no del 1979), scarpe smisurate da clown, Latella nel primo atto (dei due in cui ha ristrutturato la commedia originale) segue il testo con precisione e rispetto. La scena d'apertura, con il lume acceso del testo aristofanesco che diventa l'occhio di bue che segue in platea Strepsiade mentre racconta del figlio dilapidatore, è elegante e funzionale allo spettacolo.
Le contaminazioni con la lingua inglese strizzano l'occhio alla contemporaneità di un paese provinciale come l'Italia che NON SA parlare quella lingua ma si ostina a farle il verso e sono funzionali all'ironia disseminata nella commedia originale.
I riferimenti espliciti al sesso, la nudità esposta del pupazzo-ventriloquo che impersona Fidippide, hanno fatto storcere più di un naso, all'Argentina così come a Spoleto, dove Le nuvole ha debuttato lo scorso anno.
Molti, con somma ignoranza, hanno accusato Latella di volgarità perchè, i due Discorsi, mentre si contendono Fidippide, danno al pubblico (ma anche ai politici e agli avvocati) del rottinculo, mentre il termine è nel testo, come si saprebbe se qualcuno si fosse degnato di (ri)leggerselo.
D'altronde ci si dimentica che questa tradizione di sbeffeggiare il pubblico, che ha origini così lontane, era presente anche nella nostra rivista (Totò prendeva a peti in faccia gli spettatori delle primissime file, quelli che notoriamente pagavano di più...) ma oggi tutti si improvvisano critici (grazie alla televisione dove chiunque può parlare di qualunque argomento senza averne competenza alcuna) e spacciano la propria ignoranza (e il proprio perbenismo) per critica teatrale. Ignoranza e mancanza di memoria che non fa riconsocere le citazioni di Latella quando, cogliendo al balzo una battuta di Socrate che dà dell'effeminato a Cleone (il successore di Pericle), supera elegantemente l'impasse di non avere i 20 elementi per ricreare il coro che rappresenta le nuvole, e dà il ruolo di nuvola a Maurizio Rippa, fasciato da una calzamaglia che ne evidenzia la pinguedine, la testa rasata, un tutù nero in vita, mentre, con una perfetta voce da soprano, intona Mon truc en pluime di Zizi Jeanmaire (ma nessuno dei critici sembra avere colto, o comunque riporta, la citazione), con tanto di ventaglio di piume come nella coreografia originale, con uno splendido corrispettivo: come Zizi nel suo numero aveva 20 ballerini e qui ne ha solo uno a farle il truc en plume così il coro di Aristofane contava 20 elementi e qui ne ha uno solo. Raffinata eleganza e al contempo ribalda insolenza, deliziosa, a saperla cogliere.
Perfettamente adeguato al nostro immaginario collettivo è anche il presentatore (che canticchia la sigla di "Porta a Porta") che introduce al pubblico l'agone dei due Discorsi, una forzatura del testo che però rende più spontaneo l'agone tra l'impersonificazione di due forme retoriche (altrimenti innaturale e farraginosa per noi), che, paradossalmente, restituisce al testo autonomia e fedeltà.
Come macchina di intrattenimento Le nuvole di Latella è perfettamente riuscita, diverte, scandalizza, non annoia, fa venire voglia di rileggere l'originale (per sorprendersi di quante poche concessioni al testo si sia concesso nel primo atto).
Qualche perplessità nasce invece per la lettura poetica (politica?) che Latella fa della commedia.
Che Aristofane fosse un conservatore lo si insegna anche a scuola, ma la natura del suo conservatorismo e l'etica che ne deriva non sono così immediatamente riconducibili a quelli dell'epoca nostra.
Nel testo originale le motivazioni del Discorso Maggiore (quello che la traduzione di Letizia Russo rende direttamente con discorso Giusto) sono sì nostalgiche di quel che c'era prima (cioè prima di Pericle quando i giovani aristocratici erano allevati secondo i precetti della campagna e non quelli nuovi della città) ma tutto sommato rappresentano, almeno per Aristofane, i valori positivi cui rifarsi, cui tornare, quelli sinceramente e genuinamente perduti, mentre i valori del discorso Minore (o Ingiusto) sono quelli della nuova retorica, che fa vincere, grazie a tecniche del discorso e non in nome della giustizia, qualunque farabutto.
La preoccupazione di Aristofane era tutta lì
Se fai quel che ti dico, e a questo rivolgi la tua attenzione, avrai petto forte, colorito sano, spalle larghe, lingua corta, glutei forti e membro breve. Che se invece fai come ora si usa, avrai colorito pallido, spalle misere, petto gracile, lingua lunga, natiche piccole e membro spropositato, e lunga dichiarazione di voto; ti persuaderà che è bello cioè che è turpe e turpe ciò che è bello1.Questa parte del testo originale, come molte altre nel "secondo atto" di Latella, mancano, sono state tagliate e il discorso di Aristofane piegato a una attualizzazione politica banale (perchè semplificatoria) e distorta. Latella fa recitare il Discorso Maggiore con toni mussoliniani stravolgendone il significato originale, individuando in maniera pressappochista uno scontro generazionale e culturale (del dopo Pericle ateniese) e banalizzandolo con una versione edulcorata del fascismo nostrano cui non si capisce bene con chi l'antagonista (cioè il discorso Minore o Ingiusto) debba essere individuato. Mentre Aristofane parteggia evidentemente per il primo non si capisce Latella per chi dei due protende rischiando di concludere la commedia con un qualunquismo desolante. Impressione rafforzata da un finale nel quale Latella omette i motivi che hanno portato il figlio a picchiare il padre (motivi squisitamente culturali, di tradizioni che il figlio non voleva più rispettare) che davano respiro e spessore al litigio e che Latella riduce al mero lato cruento. Certo simbolismo aggiunto e del tutto estraneo ad Aristofane, come quello dei tre scimmioni che compaiono nel finale, cui fa da pendant quello degli gli scheletri che scendono dal cielo (Non c'è un significato univoco, ma soggettivo. Qualcuno ci vede l'Apocalisse, altri il Giudizio Universale, io ci vedo qualcosa al di sopra di tutto questo ha dichiarato Latella2) alla fine del primo atto (durante le antistrofe del coro, la parte più sensibilmente cambiata rispetto il testo originale, fatta recitare da una voce registrata di non immediata comprensione), evidenziano come mentre la riuscita teatrale dello spettacolo (quella che è stata più denigrata dai tanti critici) sia fuori discussione completamente fuori fuoco, ambigua e futile è quella etica (politica), con la quale Latella ha qualche problema a relazionarsi, sia quella del contesto originale di Aristofane che quella contemporanea da lui messa in gioco, dove il finalissimo con il bravo Maurizio Rippa che canta, con voce sommessa e senza amplificazione, Povera Patria di Battiato, fa sprofondare lo spettacolo nel qualunquismo, quello sì volgare, di chi si lamenta senza senza davvero irridere ai potenti (come faceva Aristofane) limitandosi a dare sfogo al coté più retrivo di certa italica tradizione. 1) Aristofane Gli Acarnesi, Le Nuvole, Le Vespe, Gli Uccelli a cura di Guido Paduano, Garzanti, Milano 1979 pp. 109-110
2) in Spoleto festival Corner