Prosa
LE SIGNORINE DI WILKO

LE INQUIETUDINI INTERMITTENTI DEL CUORE

LE INQUIETUDINI INTERMITTENTI DEL CUORE

Jaroslaw Iwaszkiewicz è uno scrittore polacco poco conosciuto in occidente, popolarissimo ed amato nei paesi dell'Est. Alvis Hermanis, regista lettone quarantenne, per il debutto italiano si è assunto il compito di portare a teatro un suo romanzo dall'andamento proustiano, “Panny z Wilka”. Il tempo presente è tempo della memoria, tempo di ripercorrere un passato che non può essere recuperato e che, nel momento in cui era vissuto come presente, non era vissuto appieno. E allora l'unico modo di vivere è ricordare, un'azione mentale svolta a intermittenze, non scatti volontari, non impulsi razionali, ma a seguito di suggestioni ambientali e interiori.

All'inizio Wiktor è da solo, ha vissuto eventi di guerra (appena accennati) che lo hanno segnato, cambiato; dolori che gli impongono di interrogarsi sul senso della vita, degli incontri, dei sentimenti e della loro complicata, articolata condivisione. Wiktor cerca di sciogliere i nodi del passato e della vita, di riannodare i fili del passato e della vita sperando non formino grovigli inestricabili e soffocanti (come quella cravatta che indossa). Ricordi, gesti e azioni che a molti possono apparire vacui, vuoti, inutili. Vitali per lui, evidentemente.

L'azione scenica si svolge in Polonia, subito dopo la seconda guerra mondiale (la prima nel romanzo). Wiktor si sveglia in un lettuccio dopo una notte febbrile, ansimante, le pin-ups appese alla tappezzeria sbiadita del muro. La maglia intima è sporca e bucherellata, le mutande sformate, i calzini con reggicalze elastici pendono flosci alle caviglie. Wiktor ha superato da poco la quarantina, è affaticato dal troppo lavoro, senza tempo per riflettere (“un bene, perchè riflettere non porta a nulla”); amministra un piccolo podere alle porte di Varsavia e sta male, decisamente. Gli consigliano di andare per qualche giorno in vacanza in campagna, da qualche parte. Wiktor mette in valigia cuscino e lenzuolo e parte per Wilko, dove quindici anni prima era stato precettore presso una famiglia con sei figlie. Emergono pian piano i ricordi, si sovrappongono i piani temporali: il tempo presente, il tempo passato ricordato, il tempo passato vissuto. Wiktor ansima, come non avesse abbastanza aria per sopravvivere. Il profumo della casa di Wilko (“profumo di tè lievemente metallico, come proveniente da una scatola di latta, profumo di pino e di funghi”) mette in moto un meccanismo proustiano di viaggio nel passato, nella memoria del passato. Come dal passato riemergono le sei sorelle, che escono dall'armadio della camera di Wiktor, una dopo l'altra.

Wiktor è convinto di essere passato come un'ombra a Wilko e invece le signorine gli dicono che negli anni lui è diventato una leggenda. Lo spettacolo segue un filo intermittente, interrotto e riannodato; ripercorre la quotidianità della fattoria ma anche le occasioni di incontro tra le signorine e il protagonista, sia collettivamente (giochi, pranzi, riti) sia individualmente. E sono questi ultimi che hanno segnato lui e loro. In modo indelebile. Fela è morta (Wiktor non sapeva), ma è sempre presente in mezzo alle altre con la pelle sbiancata. E, quella di loro che le assomiglia di più, Tunia, si impicca (dentro l'armadio) quando Wiktor se ne va.
La messa in scena ha al centro la coralità delle signorine, che però lascia emergere le singole individualità. Parlano in prima persona nei dialoghi, ma anche in terza nel momento in cui raccontano ciò che accadde. I ricordi sono principalmente sentimentali e sensuali, a cominciare da quell'intreccio di gambe (“qualcosa di infinitamente bello e odoroso”) che è l'incontro silenzioso tra Wiktor e Julcia, “quella volta che hanno fatto l'amore fingendo di dormire e ora fingono di non ricordare”.

La memoria è accesa dalla polvere, dal fieno, dalla marmellata, da una voce, da un raggio di sole al tramonto, da un vestito, da un corsetto, da una scarpa odorata. I ricordi mantengono presente il passato, come Fela: tutti l'hanno dimenticata, Wiktor la mantiene viva. Inquietante l'immagine di Fela che percuote la teca divenuta la sua bara in un frastuono di pentole e coperchi.
“Perchè ti perdi sempre dietro ai ricordi” rimprovera Tunia a Wiktor, “sospiri come un innamorato”. Innamorato della vita passata ora che è passata, incapace di viverla appieno nel momento in cui era presente: “era come se all'epoca tu giocassi a mosca-cieca, con gli occhi bendati a tutto quello che si muoveva intorno a te”. Wiktor è arrivato a Wilko all'improvviso, inaspettato, pensando di dover riordinare le idee e invece deve riordinare i sentimenti, le inquietudini del cuore. Solo ora appare chiaramente che tutte le signorine erano pazze di Wiktor all'epoca. Il rapporto più carnale è con Jola, la più seducente. Ma “ogni grande amore è umiliante e ridicolo”.

Il finale sfuma oniricamente, metafisicamente (e metaforicamente): le signorine sono in vestaglia, scalze, come fantasmi. Il fieno arrotolato, prima ricordo di maternità (o vacuo vagheggiamento di travaglio esistenziale), ora è dentro piatti e bicchieri: la tristezza desolata delle cose inutili, come gli inutili ricordi. “Con quali sentimenti te ne vai da Wilko?” chiedono a Wiktor; lui non risponde e prende la porta. Tunia si impicca. “Sembra una giornata di autunno anche se è piena estate”.

La regia ha il grande merito di sapere rendere con efficacia l'andamento del romanzo, le suggestioni oniriche, gli afflati sentimentali senza cadere nel melò, le illuminazioni (intermittenti), gli spunti metafisici, il percorso dei ricordi che possono diventare inquietanti o seducenti, comunque presenti in modo prepotente e preponderante. Le immagini in scena sono evocative di situazioni, sentimenti, sensazioni. L'utilizzo di sedie, barattoli, bicchieri e tazze, piatti; il rumore dei passi sulle tavole, il trascinamento dei mobili, la presenza delle teche; tutto concorre a comporre il mosaico di una storia che non c'è e che vive di suggestioni, di ricordi, di racconti: gesti, movimenti e oggetti-simbolo che evocano, suggeriscono, rimandano. Che rendono spettacolo la prosa poetica di Iwaszkiewicz.

L'atmosfera è cechoviana, gli elementi naturali compenetrano la splendida scenografia di Andris Freibergs. I pochi elementi scenici possono essere composti, rovesciati, girati a creare sempre nuove, inattese situazioni: in primis le teche di vetro, ma anche la panca, il tavolo, le sedie. Perfette le luci di Paolo Pollo Rodighiero. Azzeccati i costumi di Gianluca Sbicca, curatissimi: dai ganci dei corsetti alle fibbie delle scarpe, dalle parrucche all'effetto “vissuto” dei tessuti. La messa in scena è completata dalle musiche anni Quaranta e dalle coreografie di Alla Sigalova.

Gli attori sono chiamati a una intensa e faticosa prova recitativa e fisica. Di straordinaria bravura è Sergio Romano, incredibilmente identificato con il personaggio: il suo Wiktor, irrealizzato e incapace, è commovente, palpitante, apparentemente indifferente alla vita che passa ma intensamente sensibile a tutto ciò che è sfiorito, irrecuperabilmente. Tra le donne spicca Laura Marinoni, la carnale e viva Jola. Le altre sono Patrizia Punzo (Julcia), Irene Petris (Fela), Fabrizia Sacchi (Zosia), Alice Torriani (Tunia) e Carlotta Viscovo (Kazia), affiatate e perfette nell'insieme, efficaci nel gioco verbale e scenico, nel narrare e costruire la scena, come la vita, come il destino, a cui è impossibile sottrarsi. Però le signorine, prigioniere di sé stesse e della vita (pure anche del destino), diverse per carattere, sensibilità, atteggiamento verso la vita e i sentimenti, sono sempre fortemente legate le une alle altre, vicine, inseparabili (nonostante le teche di vetro): insieme si fanno coraggio di fronte alla impossibilità della felicità.

Pubblico molto attento, senza distrazioni; nel finale moltissimi, entusiastici applausi: tutti avranno pensato che dopo pochi minuti era San Valentino: “il nostro incontro era una cosa che avrebbe dovuto rimanere per sempre allo stato incompiuto. Potremo mai avere un'orbita comune?”.

Visto il
al Lauro Rossi di Macerata (MC)