“ - Un terzo tempo? Una nuova ripresa… dopo questo addio? Un ritorno… dopo questo commiato? – Impossibile. Tutto era fatto: nel secondo tempo, in questo tempo enorme la sonata aveva raggiunto la fine, la fine senza ritorno. E se diceva <<la sonata>>, non alludeva soltanto a questa, alla sonata in do minore, ma intendeva la sonata in genere come forma artistica tradizionale: qui terminava la sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, qui annullava se stessa e prendeva commiato – quel cenno d’addio del motivo re-sol-sol, confortato melodicamente dal do diesis, era un addio anche in questo senso, un addio grande come l’intera composizione, il commiato della Sonata.”
Così Thomas Mann, nel suo Doctor Faustus, cerca di darci e di darsi una spiegazione del perché Beethoven non abbia aggiunto un terzo tempo alla Sonata n. 32 in do minore op. 111, dopo la celebre Arietta. Una domanda che anche i contemporanei dell’autore si ponevano, tanto che l’editore Schlesinger, dopo aver ricevuto il manoscritto da Vienna, in una missiva pone a Beethoven l’interrogativo “se forse il copista avesse saltato l’Allegro”.
Le sonate op. 109, op. 110 e op. 111, composte da Beethoven tra il 1820 e il 1822 si presentano infatti come una progressiva e sistematica opera di scardinamento della forma Sonata classica e dello stile eroico che aveva caratterizzato il periodo intermedio della vita del maestro di Bonn. Nessuna delle tre Sonate presenta quattro movimenti; intensivo è l’uso della Fuga e del Contrappunto, tradizionalmente non conformi alla forma Sonata, che sostituiscono quell’arte delle transizioni che aveva caratterizzato lo stile Eroico delle sonate del periodo precedente.
Gli elementi compositivi cominciano ad apparire giustapposti in modo da evidenziare i contrasti; temi ariosi e passaggi drammatici, ritmi veloci e lenti vengono alternati quasi senza preavviso, creando sorpresa nell’ascoltatore. E ciò avviene con progressività nelle tre sonate fino al culmine dell’Arietta dell’op. 111, nelle cui variazioni sembra perdersi qualsiasi struttura formale e le idee, seppur sempre ben definite, sembrano susseguirsi per libere associazioni.
In queste sonate, inoltre, viene presentata una quantità enorme di elementi innovatori che rappresenteranno per secoli materiale di base per successivi sviluppi compositivi; basti pensare alla celebre anticipazione del Ragtime nel secondo movimento della 111.
L’organicità concettuale delle “Ultime Tre” di Beethoven rappresenta sicuramente uno dei temi del concerto di Maurizio Pollini. Eloquente e raffinata da questo punto di vista è la scelta di non includere un intervallo nella serata. L’ascoltatore viene coinvolto nel viaggio attraverso la sublimazione della forma Sonata senza che vi siano pretesti di distrazione.
Con il primo movimento della sonata op. 109, Pollini mette subito le cose in chiaro, riguardo l’interpretazione della serata: la modernità del testo ne sarà il tema indiscusso. I contrasti vengono accentuati, ma senza alcuna enfasi romantica: le parti più ritmiche sono eseguite con rigore tecnico sorprendente ma mai con giocosità, i temi ariosi si fanno sospesi e dilatati, ma nessuno spazio è lasciato alla liricità. Viene sottolineato l’uso intensivo dei registri estremi: i bassi vengono spesso lasciati risuonare a lungo fino a lasciar trapelare quell’aspetto “rumoroso” delle possibilità sonore del pianoforte, che saranno un elemento fondamentale del repertorio novecentesco, e i trilli acuti sono di cristallo, firma dell'ormai inconfondibile suono polliniano.
La straordinaria interpretazione prosegue sugli stessi toni e quando ormai l’ascoltatore si è abituato all’impronta moderna dell’interpretazione, avviene l’ennesimo miracolo nell’esegesi di Pollini: il primo movimento dell’op. 110; qui il Maestro ci riporta nel puro tardo-settecento.
Nel carattere puro e fedele dell’interpretazione c’è molto più Haydn che Ottocento. E’ quindi come se Pollini ci presentasse le ultime tre sonate di Beethoven come un ponte tra il periodo classico e quello contemporaneo, scavalcando il romanticismo.
Il viaggio attraverso l’ultimo Beethoven pianistico prosegue tra questi due estremi, supportato da una qualità di suono oltre l’ordinarietà. Fino all’op.111. Il primo movimento, il Maestoso, viene eseguito con grande pulizia e fisicità, tanto che i respiri intensi del Maestro sono parte integrante dell’esecuzione. Poi, finalmente, l’Arietta: Pollini non deve far altro che suonare in maniera perfetta: il “commiato alla Sonata” si realizza da sé, nel testo.
Terzo appuntamento di quest’anno con il Maestro Pollini all’Accademia di Santa Cecilia, dopo una serata dedicata a Bach ed una a Schumann. A 49 anni dalla sua prima apparizione all’Accademia. Pollini si conferma grande artista ed intellettuale.
Pubblico entusiasta ed affettuoso con un Pollini come sempre elegante e riconoscente nei ringraziamenti (nelle uscite passa sempre sia davanti al pianoforte, sia dietro per ringraziare la parte di pubblico seduta alle spalle dello strumento). Vari minuti di applausi e due bis: le Bagatelle n. 3 e n. 4 op. 126.