Dopo un’acclamata tournée nazionale ritorna a Napoli, al Teatro San Ferdinando, Le voci di dentro di Eduardo De Filippo, con e per la regia di Toni Servillo. Un appuntamento unico per ammirare il raro effetto di una sala stracolma di spettatori, per lo più accorsi (purtroppo) per acclamare la perfomance live del Servillo protagonista del film (premio Oscar 2014) La grande bellezza.
Sin dall’inizio la platea non mistifica in alcun modo la propria motivazione, inondando di applausi l’attore alla sua prima entrata in scena, avvenuta a spettacolo ormai iniziato e strozzando, in questo modo grottesco, il climax. Si prosegue con inopportuni applausi a scena aperta e tronfie risate di approvazione, sostitute puntuali degli amari sorrisi che gli elementi farseschi, dettati dal testo, avrebbero dovuto innescare. Quanto accade non può che spingere il pensiero verso considerazioni sulla popolarità e la fama, che seppur riscossi meritatamente con anni di lavoro ed impegno, giungono chiassosi a riscaldare con ustionante calore le fredde carni di chi il teatro, come disse lo stesso Eduardo nel suo ultimo discorso pubblico, lo ha vissuto soprattutto nel sacrificio.
In scena, la storia dei fratelli Saporito (interpretati dagli stessi fratelli, Toni e Peppe, Servillo), di cui il maggiore, Alberto, denuncia la famiglia Cimmaruta, vicina di casa, per il presunto omicidio dell’irreperibile amico Aniello Amitrano. Ma poi resosi conto di aver forse sognato quanto dichiarato, ritratta. Troppo tardi però, poiché tra i Cimmaruta è già scattato qualcosa. Le voci di dentro spingono i componenti di questo disperato gruppo sociale, ormai incattiviti nella reciproca sfiducia, ad accusarsi vicendevolmente, annoverando tra le cose possibili della vita quotidiana anche il delitto. L’epilogo non esclude dalla morale anche il protagonista, Alberto Saporito, che seppur sognando solamente ha, anch’egli, inconsciamente creduto i vicini capaci di un tale crimine.
Come commentò lo stesso Eduardo circa trent’anni dopo la stesura della sua opera:" Questa commedia è oggi ancor più attuale di quanto fosse nel ’48: viviamo brutti tempi, e il dovere di un artista degno di questo nome è quello di mostrare alla gente la realtà, per quanto sgradevole essa sia". E’ molto probabile che proprio questa coscienza abbia mutuato le scelte registiche di Toni Servillo: la necessità impellente di condividere con gli spettatori in maniera quanto più diretta, l’opera ed il suo cupo ammonimento.
Operando sulla traslazione in avanti del palcoscenico, che diviene aggettante fin quasi a sommergere la prima fila, ed inclinando il pavimento (oltre che per tecnici motivi prospettici), la narrazione è materialmente riversata tra le braccia del pubblico. Inoltre, al fine di enfatizzare l’universalità del testo, Servillo priva lo spazio scenico di quasi tutte le coordinate spazio-temporali. Annichilito l’originario realismo scenografico, è disegnata, elegante ed impalpabile, un’ambientazione onirica decisamente espressionista.
Superfluo entrare negli indiscussi meriti dell’opera eduardiana. Ritenuta fondamentale da tutti ma poi, solo da pochi, adeguatamente valorizzata se non per arricchire il (pur sempre inutile) vanto campanilista. Molto più importante è prendere atto di quanto Servillo si dimostri capace di una lettura ricercata ed autorale. Forte si riconosce la volontà di adottare un registro interpretativo soprattutto per i protagonisti (Alberto e Carlo) che vada a pescare nelle identità psicologiche dei personaggi e si riversi sul proscenio con caustica allegoria. Nel contempo, il nevrotico flusso logorroico, cifra di quest’interpretazione di Alberto Saporito, con lo scorrere del tempo diviene asincrono rispetto alla partitura d’insieme e lo stesso Toni Servillo, che ne indossa i panni, spesso risulta stanco e subissato. Per questo e per motivi attribuibili ad una (a tratti) confusa orchestrazione, in parte legata alla complessità del duplice ruolo di regista e primo-attore ed in parte alla dubbia caratura di alcuni attori, la compagnia sembra giungere all’epilogo frastornata e stanca.
Per quanto detto ma soprattutto per l’assente sensibilità dell’uditorio, si giunge alla scena conclusiva senza colpo ferire e non resta che attendere la conclusione dello scrosciante applauso tributato al nostro beniamino.