LEAR

La vertigine dell'età. Giorgio -Lear -Albertazzi

La vertigine dell'età. Giorgio -Lear -Albertazzi

Un Lear molto particolare ha debuttato il 28 settembre all'India di Roma, inaugurando la stagione dell'inusuale teatro romano ricavato dalla ex fabbrica della Miralanza. A (de)costruirlo un grande del teatro di parola, l'87enne Giorgio Albertazzi, e il direttore del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, Antonio Latella.
Sulla scena, un tavolo e due panche, dove gli attori si apprestano a una lettura del Lear, nella traduzione di Ken Ponzio. Albertazzi impone letture e riletture, commenta la qualità della traduzione (un damerino del testo shakespreariano reso con un più prosaico frocio) e quella degli attori e attrici (ma chi l'ha ingaggiata? chiede all'interprete di Gonerill Lei Maestro risponde pronta l'attrice). Il testo shakespeariano scalza e si sovrappone alla realtà degli attori, mostrati nell'atto di provare uno spettacolo che ancora non c'è. Pochissimi i cenni scenografici, le tavole di legno che costituiscono tavolo e panche serviranno a simulare gli alberi della foresta nella celebre scena della tempesta a metà dramma. Più moderni (e discutibili) alcuni elementi tecnologici: un microfono che amplifica e distorce la voce degli attori-personaggi, una musica che si insinua nella scena, per commentare le scene del Lear (o quelle degli attori intenti a provarlo?).
Un escamotage meta-teatrale sicuramente non nuovo ma elegante nella sua essenzialità, permette a Albertazzi di essere Lear anche con gli attori, o di essere ...Albertazzi con Gonerill, Cordelia e Regan. Uno scontro tra un vecchio e dei giovani, siano essi attori che recitano accanto a un grande del teatro, o le figlie di un vecchio Re che ha deciso di abdicare. Molti i paralleli possibili a cominciare da quello del regno che Lear vuole dividere in parti uguali per le sue tre figlie proprio come Latella e Albertazzi
sezionano il testo di Skaespeare. Il loro Lear infatti si conclude poco dopo la tempesta, quando il mattatore che non vuole abdicare, decide di non finire abbandonare il palco prima della fine: Finitela voi la storia, io non voglio morire stasera facendo di fatto concludere lo spettacolo a metà del terzo atto...
Questa mutilazione non viene fatta per mancanza di rispetto o disinvolture esegetiche ma solo per esigenze drammaturgiche. Latella (de)costruisce lo spettacolo cucendolo addosso ad Albertazzi e impiegando gli altri attori a questo scopo. Tutto lo spettacolo sembra una esposizione dell'arte di recitare: l'escamotage meta-teatrale permette a Latella di far recitare male un'attrice all'inizio dello spettacolo, quando è ancora poco dentro al personaggio, che poi si rivelerà una grande interprete quando il personaggio prevarrà sulla sua persona. Permette anche di portare in scena un attore non professionista chiamato a interpretare Gloucester (la cui parte è quella più sensibilmente tagliata dal testo originale) per giocare sulla qualità delle interpretazioni degli attori coinvolgendo il pubblico in quella che si presenta come una lettura a porte aperte (con tanto di luci di sala che rimangono accese) più che uno spettacolo vero e proprio. Solo dopo che l'ardore recitativo del maestro pervade tutti la lettura si trasforma in spettacolo vero e proprio (tanto che anche le luci in sala prima si abbassano di intensità e poi si spengono del tutto).
Latella e Albertazzi sembrano mettere in scena la storia dello scontro generazionale tra giovani e vecchi, tra padri e figli(e), ma, anche, quella del teatro di parola (difeso strenuamente da Albertazzi che cita all'uopo Schopenauer) rispetto il teatro performativo contemporaneo del quale Latella usa alcuni elementi (i microfoni amplificati che distorcono le voci) che Albertazzi chiama teatro d'azione. Se da un lato è il capriccio di un grande attore quello che impedisce la conclusione del testo originale dall'altra è Latella che si rifiuta di portare in scena come andrebbe portato un testo della modernità teatrale
denunciando l'impossibilità del teatro contemporaneo di restituire con sincerità una forma narrativa chiusa, completa, mostrandone quel che ne resta: lacerti, momenti, brani, dissezionati e autonomi, quasi rapsodici (anche se seguono la cronologia originale), tenuti insieme non già dalla forma teatro ma dal teatro nel suo farsi, e dalla bravura di chi vi recita e da quella di Albertazzi capace di passare dalla scena gridata a quella sussurrata e pure lo stesso detta con energia.
Un azzardo che potrà non piacere ai puristi di shakesperare, anche perchè dei temi del Bardo ben poco viene in effetti affrontato in questo Lear, che potrà indignare chi in uno spettacolo cerca sempre una ragion d'essere che dia completezza alla forma, per quanto strana e astrusa.
Un azzardo che però non può lasciare indifferenti perchè fatto con tutta l'onestà intellettuale possibile e perchè risulta coerente con la sua stessa premessa: la messa in scena di un teatro prima del suo farsi, prima del suo prendere una forma definita, oggi improponibile perchè troppo consolidata per risultare ancora sincera. Un teatro di parola che mostra i limiti del suo farsi oggi e che trova credibilità solo nei suoi grandi e vecchi interpreti, in quella generazione oggi tanto vituperata perchè è ancora al potere in Italia in tutti i campi. Ma non è colpa di Albertazzi se quando sta sulla scena, nonostante la sua veneranda età, è molto più giovane di tanti giovani anagrafici che sul palco come nella vita reale non sanno capire che l'importante non è invecchiare, l'importante è non diventare adulti. Parola di Albertazzi.

Visto il 28-09-2010
al India di Roma (RM)