Meschinità? Aberrazione? Abiezione? C’è tutto questo, come ampiamente promesso, nella lettura de L’ebreo, eppure non è ancora sufficiente per trovarne la decifrazione. La vicenda descrive un momento storico in cui in Italia, e nel ghetto di Roma in particolare, molti ebrei, per evitare probabili espropri di beni, intestarono le loro proprietà a fidati prestanome. In questo caso, però, il “padrone” dopo tredici anni di deportazione torna a casa: di fronte all’inatteso e sconvolgente pensiero dei protagonisti di perdere d’un tratto una mai guadagnata ricchezza, le strade psicologiche si separano abbastanza nettamente, e si delineano due chiavi di lettura.
Anzitutto, il rapporto fra moglie e marito. Lei, una sorprendente Ornella Muti, è letteralmente terrorizzata all'idea di perdere l’immeritato benessere e di ritornare al rango di tutti coloro che si era ormai abituata a guardare dall'alto in basso ed a disprezzare, con un sentimento talmente eccessivo da far apparire chiaro che il disprezzo è anzitutto nei confronti di sé stessa e della sua essenza di "serva", ovvero ciò che dentro è sempre rimasta. In questo modo il linguaggio usato, un romanesco popolare ed a volte sguaiato, è perfetto anche per immergersi nell’ambiente. Lui, Emilio Bonucci, ha qualche slancio di umanità che potrebbe apparire salvifico, ed a tratti sembra anche provare ad intervenire a fatica nella storia per conferirle un taglio umano, ma alla fine non può andare al di là della sua ignavia, e si fa strumento di un’allegoria che sembra richiamare quella del Serpente, di Eva tentatrice e di un Adamo accidioso e sconfitto in partenza.
L’altro tema, classico per eccellenza, è quello del "convitato di pietra": l’Ebreo non appare mai, nemmeno nel momento in cui dovrebbe essere sacrificato, rendendo tutto il dramma ancora più rivolto all’interno dei personaggi che lo vivono, e con questa sua assenza incombe dentro le loro misere coscienze più ancora che se si fosse manifestato. Forse la definizione preferibile, perciò, sarebbe quella di miserabilità, e questa storia, come avverte anche Lamanna, è davvero quella che va scritta con la “s” minuscola, ovvero lo sfondo personale, intimo ed inconfessabile che così spesso sta al di sotto di quella Storia con la “S” maiuscola che invece si tramanda ai posteri.
Visto il
09-02-2010
al
Bellini
di Napoli
(NA)