Milano, teatro alla Scala, “Ledi Makbet Mcenskogo Uezda” di Dmitrij Šostakovič
L'AMORE E' UNA NECESSITA' VITALE
La produzione giovanile di Šostakovič, vicina ai movimenti dell'avanguardia rivoluzionaria, risente del neo-oggettivismo tedesco e francese (Hindemith soprattutto), tenendo però ben presenti gli influssi della patria (Rimskij-Kprsakov e Prokof'ev): dominante è un piglio aggressivo ma dai tratti grotteschi ed ironici, il timbro è esuberante, il ritmo è estroso, i temi popolari si mischiano ad altre suggestioni (il jazz, fra le altre) ed alla caricatura della musica borghese, nell'impegno di trasmettere con realismo gli ideali rivoluzionari.
La drammatica e satirica “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” polemicamente interpreta il delitto shakespeariano come gesto di rivolta antiborghese. Rappresentata per la prima volta a Leningrado nel 1934, venne accolta con grande favore sia in URSS che all'estero, anche se parte della critica ne disapprovò l'aggressività e la crudezza delle situazioni. Due anni dopo Stalin mise al bando l'opera, definendola antipopolare e formalistica, e così Ledi Makbet scomparve dalle scene, fino al 1963, quando fu di nuovo rappresentata a Mosca con il titolo di “Katerina Izmajlova”, ripulita nel libretto da crudezze veristiche e nella partitura da durezze armoniche e difficoltà vocali.
La struttura dell'opera è solida, compatta come un poema sinfonico; la musica ha una vitalità in cui grottesco ed ironia accompagnano, con cupa allegria, la tragedia, una tragedia satirica.
Nell'ascolto e nella rappresentazione non si può prescindere dal contesto storico in cui l'opera è stata composta, quello della burocratizzazione e della stalinizzazione dell'arte, quando esponenti di punta della cultura sovietica (fra gli altri Mendel'štam) furono arrestati e giustiziati, lasciando agli altri come unica alternativa il conformismo ai canoni del realismo socialista “provinciale”, come lo definì Prokof'ev.
Richard Jones sposta il tempo dell'azione negli anni Cinquanta-Sessanta, non colloca esattamente il luogo ma da alcuni particolari (i calzettoni sotto i sandaletti di Katerina e Aksin'ja) si presuppone che sia nell'est Europeo. Il regista presuppone il contesto in cui l'opera è maturata, creando un'atmosfera oppressiva e claustrofobica, dominata da eccessi truci e sanguinolenti, ma, al tempo stesso, satirici, presenti nel libretto e nella partitura musicale.
Il risultato, eccellente, è una messa in scena pulp e trash, mai volgare e mai provocatoria, asfittica, senza uscita se non nell'eccesso (ironico, si badi bene). Gronda il sangue da sacchetti e lenzuola, inzacchera vestiti e il grande letto matrimoniale, tinge di rosso mani e facce. Il regista non ci risparmia né gli accoppiamenti, così intensi da trascinare i mobili a spasso per le stanza, né i crudi ammazzamenti.
Complici le splendide scene di John MacFarlane, che passano dal grigiore quasi proletario dei primi atti, al kitsch colorato e geometrico del terzo, al buio profondo del quarto. Nei primi atti due ambienti contigui cambiano a seconda delle scene (prima a sinistra c'è l'ingresso e a destra la cucina, poi a sinistra c'è la camera da letto e a destra l'ingresso, poi a sinistra c'è la cucina e a destra la camera da letto); nel terzo un innovativo e inusuale cambio a vista della tappezzeria e del mobilio, accatastato da una parte. Eppoi il buio del quarto atto, in cui si intravedono dal retro due cassoni di camion, in cui vengono trasportati verso la Siberia i detenuti maschi e femmine durante un finale patetico ma coerente e necessario, seppure musicalmente meno originale e meno novecentesco.
Perfetti, in tale perfetta scenografia, i costumi di Nicki Gillibrand, che contribuiscono a creare una scena così prodiga di emozioni visive da cui non si riesce a distogliere lo sguardo, anche grazie alle luci livide, seppiate o coloratissime di Mimi Jordan Sherin.
Kazushi Ono ha piazzato trombe e tromboni sul palcoscenico e sulla barcaccia di primo ordine per ottenere un effetto molto intenso di suoni chiari e luminosissimi; ha diretto l'Orchestra di casa con piglio deciso e con molta partecipazione ed attenzione ai dettagli, assecondando i momenti espressivi e quelli lirici di questa partitura che a momenti assomiglia a un musical.
Nel cast si è distinto uno straordinario Anatolij Kotscherga, che ha impersonato Boris con voce perfetta e straordinarie capacità attoriali nella gestualità e nella mimica, sopraffattore e crudele, con quell'annusare di continuo la nuora, smanioso di abusare di lei.
Evelyn Herlitzius ha dato voce e corpo a Katerina in modo molto convincente: la sua Ledi Makbet è quasi proletaria, sola e annoiata. Bruna con una lunga e corposa treccia nei primi due atti, bionda con la chioma fluente negli altri, vive l'amore come una necessità vitale, unico antidoto alla noia che la attanaglia. All'inizio è in balìa degli eventi, vittima involontaria del suocero, che agisce su di lei anche per mezzo del marito. Poi, sulla spinta della necessità vitale di amare, diventa sicura e coraggiosa, fino ad uccidere, per poi ammettere la colpevolezza ed accettare la deportazione in Siberia: doloroso è il finale, quando comprende che tutto è finito e non le resta altra via che la morte.
Christopher Ventris è un credibile Sergej, superficiale e opportunista, mai scontato e banale, molto preso dagli incontri di boxe in televisione, sempre carnale e passionale.
Carole Wilson è un'intensa Aksin'ja soprattutto nella brutale scena dell'aggressione, che lo spruzzo di panna rende grottesca.
Debole invece lo Zinovij di Ganluca Pasolini, ma ci sta con il personaggio velleitario ed impotente di fronte alla forza quasi animalesca del padre.
Bene gli altri numerosi comprimari, dall'alcolizzato e cencioso contadino di Alexandre Kravets al prete grottesco di Maxim Mikhailov, dalla scura Sonetka di Nataša Petrinsky ai poliziotti stanchi e annoiati Nikita Storojev, Tahiwan Park ed Ernesto Panariello.
Ottimo il coro, preparato da Bruno Casoni, alle prese con la musicale ma difficile lingua russa.
Uno spettacolo forte come un pugno nello stomaco e, al tempo stesso, ironico e grottesco nel suo essere decisamente e modernamente pulp, con immagini che restano nella memoria, insieme alle note di Šostakovič.
Purtroppo il teatro registrava numerosissimi posti vuoti, a testimoniare che il pubblico italiano (a differenza di quello europeo), anche quello colto del turno A della Scala, non è attratto né incuriosito dal Novecento, neppure quandosi rappresenta un capolavoro come in questo caso. Diverse persone, poi, se ne sono andate nell'intervallo, disturbate dalla crudezza della rappresentazione (non avendone percepito la forza satirica) e poco attratte dalla “novità”, se novità possono essere considerate “Ledi Makbet” e Šostakovič, a cui la vicina Parma ha dedicato lo scorso anno, nel centenario dalla nascita, lo straordinario ed intensissimo progetto “Leningrado” (Parma che, evidentemente, è geograficamente vicina ma culturalmente lontana dai milanesi).
Uno spettacolo da non perdere, perchè è una delle cose migliori di quest'anno, da vedere e rivedere.
Visto a Milano, teatro alla Scala, l'11 giugno 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)