Lirica
L'ELISIR D'AMORE

Elisir circense

Elisir circense

Prima della prima: fuori programma al teatro dell'Opera, dove alcuni “precari della cultura” hanno messo in atto una vivace ma ordinata protesta; suonando e cantando hanno occupato simbolicamente prima l'atrio e poi la platea, manifestando educatamente e pacificamente contro i tagli alla cultura in Italia (in controtendenza rispetto al resto dell'Europa nel momento di crisi) al grido di “Branca Branca Branca! Leon Leon Leon!” davanti al pubblico in grande spolvero della prima, una vera festa che ha consentito poi regolarmente lo svolgimento dello spettacolo. Un plauso va alla direzione del teatro che lo ha consentito.

Ruggero Cappuccio sceglie una tinta circense come colore dominante dello spettacolo. Fin dall'inizio sono presenti sul palco saltimbanchi, giocolieri, trapezisti, equilibristi. Restano poco sottolineate le interiorità dei personaggi e gli sviluppi dei caratteri nel corso dell'opera: la storia scivola via con leggerezza, piacevolmente ma senza la commozione e il divertimento che sono nel libretto. Ruggero Cappuccio è uomo di mestiere teatrale e sa come posizionare protagonisti e masse per una buona resa, in linea con l'idea fiabesca e circense (vagamente sognante) che ha in mente. E certamente concordiamo che non servono balle di fieno e forconi per far funzionare l'Elisir.
Adina, dopo avere letto di Tristano e Isotta, strappa le pagine del libro e le distribuisce ai villici. Belcore, come un prestigiatore, tira fuori dalla propria schiena un fiore dal gambo lunghissimo, che offre ad Adina (e il venditore d'acqua ci rimane male, perchè il suo sifone è notevolmente più corto). Il carro di Dulcamara è una piramide a base triangolare, che si apre come un fiore: il dottore ne esce camminando a gambe piegate che pare un nano, scomodissimo per il cantante ma assai buffo (come i cardinali di Arturo Brachetti). Alcuni dettagli virano verso il fiabesco: gli ombrelli con le lucine delle contadine, il fiore-parasole di Adina portato da una servetta, il siparietto con la fontana dell'amore in merletto, le lunghe trombe usate (fintamente) per la barcarola che, appoggiate a terra, diventano i pali segnarotta per (inesistenti) barche lagunari rimpiazzate da un tavolo che scivola verso destra, i libri con la luce che paiono gabbiani svolazzanti.
L'amore è sempre appeso a un filo, mai dimenticarsene: durante la Furtiva lagrima, un'acrobata si attorciglia lentamente su un nastro rosso che scende dall'alto verso un materasso quadrato bianco, mentre rose di pizzo vengono proiettate sui fondali (erano prima bollicine quando Nemorino beveva l'elisir-vino). Il finale di Dulcamara è ritmato dai ventagli delle coriste, tac tac tac.

La scena fissa di Nicola Rubertelli è completamente bianca, a dare l'idea di paese c'è sullo sfondo un gruppo stilizzato di casette; le quinte rimandano al mondo dei pizzi e dei merletti; lampadine nel second'atto a profilare tre sagome di galline l'unico riferimento alla campagna voluta dal libretto; tavoli vengono usati anche come pedane e passerelle. Ancora bianchi i bei costumi di Carlo Poggioli, che giocano con frutta e verdura a stampa in vivaci colori su grembiuli e sovragonne di plastica trasparente; non mancano le turcherie per gli assistenti di Dulcamara, scarpe con le punte all'insù, pantaloni a sbuffo, turbanti e fez; Belcore e i suoi sottoposti paiono soldatini di piombo, con le bandierine stampate su bordi dei pantaloni e panciotti. Le luci di Agostino Angelini rendono la scena luminosa, di un candore quasi abbacinante, senza ombre, senza malinconia (solo qualche abbassamento, virando verso i toni rosati, in un paio di momenti più intimi).

Equilibrata la direzione di Bruno Campanella, esperto di questo repertorio, che trova la giusta tinta orchestrale e sottolinea giustamente gli accenti della partitura, sostenendo i cantanti in modo ottimale; i tempi sono a momenti allargati, perfetti per la Furtiva lagrima, dove il pubblico richiede a gran voce il bis (non concesso; il suono a momenti è deciso ma mai soverchiante rispetto alle voci.
Il coro, preparato da Roberto Gabbiani, non prende da subito l'appiombo con l'orchestra, ma pochi minuti e tutto perfetto: convince pienamente sia dal punto di vista vocale che scenico.

Adriana Kučerovà è una Adina di notevole fascino, la voce è piccola ma usata con grande proprietà di accenti e colori (una maggiore attenzione alla dizione non avrebbe guastato), soprattutto nel registro alto, dove il soprano rende meglio. Il Nemorino di Saimir Pirgu ha grande e bella voce, solida e timbrata, capace di squillare senza difficoltà ma anche di ammantarsi di venature vellutate nelle discese verso il grave; convince in particolare nei passaggi più lirici, affrontati con particolare struggimento (commovente “Adina, credimi, te ne scongiuro”). Ottimi Fabio Capitanucci e Alex Esposito. Capitanuncci è un Belcore “soldatino di piombo”, dal piglio militaresco nel fisico roccioso, con voce di bel colore ed usata sapientemente per cerare un personaggio buono e, comunque, mite. Esposito è un Dulcamara giovanile e baldanzoso, dall'aspetto piratesco con lunga treccia dal centro della testa rasata; il personaggio è impostato in modo divertente ma intelligente, esente da trite giogionate nell'arrampicarsi sulla sua piramide senza ombra di paura, cantando sempre con la voce assai di lusso che conosciamo. Giusta la Giannetta di Erika Pagan dalle guance rosse come le fragole del vestitino, bene udibile anche negli assieme.

Teatro esaurito, pubblico assai divertito, moltissimi applausi per tutti.

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