Dopo la prima andata in scena tra i terminal della Malpensa, operazione mediatica non nuova al Sovrintendente Pereira che già qualche anno fa aveva portato la Traviata tra i binari della stazione di Zurigo, L'elisir d’amore torna nella sua sede abituale nell’allestimento scenico ideato anni fa per la Scala da Tullio Pericoli (anche creatore dei costumi) con la regia ora ripresa da Grischa Asagaroff.
L’impianto scenico ha tratti grafici e naif che ben si addicono all’opera giocosa e vede un’infilata di quinte arboree dalla bidimensionalità volutamente accentuata che incorniciano un fondale dipinto nei toni pastello che raffigura, riprendendo lo stile dei libri illustrati per bambini d’antan, un paesaggio collinare, una natura morta giocosa come un albero della cuccagna, una chiesetta di campagna su di un cucuzzolo. Già visto, ma funziona sempre, l’armadio - tabernacolo che avanza sulla scena per aprirsi e svelare il mondo di fantasia colorata e surreale del medico ciarlatano accompagnato da un trombettiere e da un buffo servo muto in calzamaglia che regge il gioco e suggerisce le battute. Se pur non ci siano elementi di novità, l’impatto visivo è gradevole e le luci calde di Hans-Rudolf Kunz contribuiscono a conferire la giusta atmosfera estiva. I fantasiosi costumi dello stesso Pericoli (copricapi da Puffi, maniche esageratamente a sbuffo, un tripudio di pois, calzature multicolor) esaltano la comicità fumettistica dei personaggi e le masse in abiti pastello dai colori sfumati e dégradé diventano parte integrante del paesaggio.
Debole la regia che si affida principalmente al talento istintivo dei protagonisti (Grigolo in primis), ma che non sfrutta la verve e il ritmo insiti nel plot di cui dà una lettura riduttiva con un movimento scenico datato non privo di inutili gesti, mossette e passi dell’oca, e la cui unica trovata si riduce al cinghiale che attraversa due volte la scena.
Uno spettacolo di repertorio che diventa però un evento per il Nemorino di Vittorio Grigolo, ideale da tutti i punti di vista ma soprattutto – ed è una piacevole sorpresa – a partire dalla cura del canto. La voce estesa e baciata da un timbro solare (come non pensare a Pavarotti nel ruolo) è sempre trascinante e ricca di comunicativa ma, gestita con maggior consapevolezza d’interprete, si piega alla sfumatura, si assottiglia per trovare accenti raccolti in sintonia con la nota patetica del contadino innamorato, senza però che vengano meno simpatia e passione. Il canto variegato e ricco di senso (a partire dalla cavatina iniziale e per tutta la durata dell’opera) rende il personaggio interessante e “nuovo” (Nemorino è molto più di “una furtiva lacrima”, peraltro qui ben cantata) e solo a tratti emerge l’esuberanza guascone un po’ sopra le righe del cantante toscano, ma nel ruolo ci può stare, anzi aiuta non poco.
Se Grigolo “è” dunque Nemorino, Eleonora Buratto “non è ancora” Adina. Per quanto la giovane e promettente cantante sia dotata di una voce lirica piena dal registro centrale particolarmente sontuoso, non trova giusta varietà e leggerezza e il personaggio, peraltro non valorizzato dalla regia, risulta monocorde e privo di quel mix di civetteria, sensualità e arguzia che lo rendono irresistibile. Di Michele Pertusi, nonostante la voce abbia perso un po’ di smalto negli anni (la cavatina d’ingresso vorrebbe maggiore peso specifico), non si possono che lodare stile, musicalità e dizione, tutte doti fondamentali per il sillabare (e sibilare) di Dulcamara: il suo ciarlatano non è debordante ma pieno di spirito e piace perché è personaggio e non macchietta. Mattia Olivieri è decisamente giovane e forse anche per questo il suo Belcore non è completamente risolto, come rivelano all’inizio i problemi d’intonazione e una certa genericità interpretativa; la materia vocale è però interessante e la prova è stata in crescendo. Una piacevole scoperta la brillante Giannetta di Bianca Tognocchi e un plauso al servo muto di Dulcamara interpretato da Jan Pezzali che con mimica surreale ha regalato al pubblico divertenti controscene.
Con gesto elegante e preciso Fabio Luisi tiene in pugno orchestra e cantanti infondendo giusta disciplina anche al tenore più estemporaneo. Della direzione musicale ci è piaciuta la capacità di sfumare, alleggerire, chiaroscurare, favorendo le ragioni del canto, ma si sono avvertiti - complici tempi piuttosto lenti - limiti nella narrazione teatrale e nei duetti dove avremmo voluto maggior brio e tensione dinamica. Decisamente buona la prova dell’orchestra, precisa in tutte le sezioni. Bene anche il coro preparato da Bruno Casoni.
Teatro pieno, applausi per tutti e punte di entusiasmo per il tenore, mattatore della serata.
Ma quanti telefonini accesi in sala durante la rappresentazione!