Lirica
L'ELISIR D'AMORE

Fra lacrime e sorrisi l’elisir della felicità

Fra lacrime e sorrisi l’elisir della felicità

E’ andato in scena a Torino un Elisir d’amore di tradizione nel senso “buono” del termine: un allestimento convenzionale e garbato, ma efficace nel far risaltare la spontanea comunicativa di quest’opera, melodramma giocoso, su cui aleggia un sorriso intriso di elegia, tenerezza e malinconia.
Donizetti, riadattando in tutta fretta un’opéra comique di Scribe, fa emergere un colore contadino nativo sedimentato nella memoria, atmosfere di terra lombarda dai colori pieni, ma non chiassosi, personaggi quasi manzoniani per freschezza, pudore e arguzia. E l’opera, per la vena melodica facile e immediata e per una riuscita caratterizzazione psicologica, ha riscosso fin dagli esordi il favore popolare (e l’ottiene tuttora).
I personaggi non sono maschere dell’opera buffa che seguono un modello precostituito, bensì sono protagonisti di una commedia sentimentale colti nella loro umanità in un intreccio di malizia e ingenuità, idillio e comicità, ripicche e sospiri. Per la prima volta in un contesto comico il tema amoroso viene trattato in modo profondo: è un semplice contadino, lo spirito del popolo, il portatore del vero amore.

Nella regia di Fabio Sparvoli, con gradevoli scene di Mauro Carosi e bei costumi di Odette Nicoletti, tutta l’azione si concentra all’interno di una cascina, microcosmo chiuso e isolato, teatro per le vicende dei protagonisti. In primo piano un grande ambiente austero ed essenziale, un granaio in cui sono accatastate le balle di fieno, ad evocare la mietitura e la campagna, che verrà poi vestito a festa nel secondo atto con ghirlande e mazzi di fiori per introdurre la festa nuziale. E l’addobbo è così bello e riuscito che il pubblico gli regala un applauso…
Il fondale cambia colore per suggerire la campagna assolata o la nebbiolina mattutina, si colora di rapide pennellate che suggeriscono i pioppi della campagna padana, si tinge di blu nel momento di massimo pathos. Una regia “povera” ma evocativa dell’atmosfera contadina e naif che permea l’opera: il teatrino improvvisato in cui Dulcamara e Adina recitano “la Nina gondoliera “ come burattini da sagra paesana, le contadine giubilanti che fanno saltare in aria con le lenzuola un fantoccio che rappresenta Nemorino divenuto ricco, due spaventapasseri (Adina e Nemorino) portati in trionfo.

Al primo cast di grande richiamo (Juan Diego Florez ed Eva Mei) si è alternato un ottimo secondo cast di giovani in cui ha trionfato Francesco Meli nel ruolo del protagonista, splendido non solo dal punto di vista vocale, ma per la capacità di suggerire in modo appropriato tutte le sfumature e gli stati d’animo, emozionando e divertendo il pubblico. Un Nemorino giovane e credulone, trepidante e malinconico, ma anche passionale e generoso, come la voce che risuona piena, luminosa e squillante. Con vario fraseggio caratterizza i diversi momenti : un “ Quanto è bella ..” sognante, lo squillo di “Esulti pur la barbara“, lo struggimento di “Adina credimi “, fino alla “Furtiva lagrima “cantata (e bissata a furor di popolo) con sentimento, gusto, attenzione.

Serena Gamberoni è un'Adina volubile e capricciosa, perennemente imbronciata, ma così incantevole da giustificare ogni elisir. Dotata di temperamento e ottima presenza scenica, con movenze leggere ed accattivanti ha ben dipinto la ragazza viziata che fa strage di cuori sbattendo le ciglia e sgranando gli occhioni. Arguta e ironica, fa il verso a se stessa, imitando le movenze di una bambola meccanica nella scena della barcarola. La voce è leggera, ma ben impostata e controllata e arriva agevolmente agli acuti e trionfa nel finale, quando confessa con improvviso pudore la scoperta dell’amore e, anche se non è vero, facciamo finta di crederle, cedendo alla commozione.

Marcello Lippi non ha il peso di certi Dulcamara di tradizione, ma canta in modo corretto e se il suo “Udite o rustici “ è un po’ in sordina, è efficace nei duetti, dove emergono gli aspetti psicologici di un personaggio capace di autentico stupore e simpatia, lontano dalla macchietta o caricatura. L’aiutante di Dulcamara, interpretato dall’attore Mario Brancaccio, è un guitto dai capelli arancioni, un po’ punk un po’ buffone, che amplifica con gesti plateali le ciarlatanerie del padrone. Ed è lui l’elemento marcatamente caricaturale, figura buffa e grottesca, ma forse inutile. Paolo Bordogna, Belcore, ha voce baritonale di bel colore con facilità nel registro acuto. Con buone doti attoriali, da autentico buffo, caratterizza con gesti meccanici e riconoscibili la “maschera“ del soldato vuoto e fanfarone. Gabrielle Mouhlen è un’ intrigante Giannetta.

Antonello Allemandi ha diretto in modo fluido e scorrevole l’orchestra del Teatro Regio, che con suoni puliti ha accompagnato adeguatamente i cantanti, fornendo il giusto supporto ai momenti di abbandono elegiaco. Buono il Coro del Teatro Regio, preparato da Claudio Marino Moretti, che, con movimenti scenici curati e azzeccati, ha potenziato l’atmosfera giocosa e contadina.

Rappresentazione esaurita per tutte le repliche, grande successo di pubblico, che ha applaudito in piedi con convinzione e affetto le stelle del secondo cast. Perché forse abbiamo ancora bisogno di ingenuità, furtive lagrime e sorrisi, di applaudire un giovane tenore e la sua incantevole sposa.

Visto il 26-05-2007
al Regio di Torino (TO)