Lirica
L'ELISIR D'AMORE

Volantini dal loggione

Volantini dal loggione

Non vi è dubbio che il libretto di L'elisir d'amore che Felice Romani consegnò a Donizetti per la stagione primaverile 1832 del milanese Teatro della Cannobiana sia il migliore da lui mai steso: per la perfetta caratterizzazione dei personaggi, per il rapido procedere dell'intreccio, per l'eleganza del testo in sé, per la vena di tenera e genuina sentimentalità che lo pervade tutto. E' per questo che il compositore bergamasco, una volta presolo tra le mani, riuscì a sua volta a dar vita alla sua maggior incursione nel genere buffo, conseguendo quei sorprendenti esiti che solo in parte saranno eguagliati con La figlia del reggimento e Don Pasquale. Ed è per questo ancora che non ci si stanca mai di assistervi – anche in queste recite immerse nell'impazzare del Carnevale veneziano 2015 - ritrovando sempre il medesimo piacere della prima volta; piacere ancor più forte se si vien messi di fronte a un'edizione musicalmente frizzante e piacevole e servita da un allestimento delizioso come questo che commentiamo, impostato per il massimo teatro veneziano da Bepi Morassi e Gianmaurizio Fercioni - regista l'uno, scenografo/costumista l'altro - presentato la prima volta nel 2010 e poi ancora nel 2012 (in entrambi i casi con in più l'accoppiata vincente Rancatore-Albelo).

Il loro metodo, in fondo, sta tutto nella semplicità: costumi tradizionali e appropriati, rilettura garbata degli sfondi scenografici d'antan con quinte a vista e teli con immagini 'retrò' inondate di luce e al di sopra una direzione registica dal tocco leggero e ammiccante, arricchita da qualche trovatina spiritosa come il colpo a salve di cannone che conclude il tonitruante ingresso di Belcore o l'idea di far sostituire a Dulcamara il direttore che, dopo esser stato sloggiato, riprende il suo posto pettinato e vestito come lui. E ancora il lancio dal loggione di colorati foglietti che pubblicizzano le virtù dell'elisir, un po' come nel film Senso di Luchino Visconti proprio qui alla Fenice ambientato. Ma, in definitiva, il segreto dei due sta nel sapersi mettere in completa sintonia con lo sciogliersi del racconto – è una favoletta graziosa, lasciamoci andare, come avverte anche il Romani quando premette «Gli è uno scherzo...» - e il fluire della musica donizettiana che sa innescare in ogni momento la conveniente reazione emozionale.

E' piaciuta molto al pubblico Mihaela Morcu per la fresca presenza e la piena centratura del carattere malizioso della “ricca e capricciosa fittaiuola” Adina, per la vocalità pastosa e intensa, ovunque omogenea nella gamma, che non palesa alcun sforzo nell'emissione. Da ricordare la bella cabaletta «Il mio rigor dimentica», che rivela una notevole indole all'uso della coloratura; ma quando vuole essere lirica e melanconica, il giovane soprano romeno ci riesce altrettanto bene. E' piaciuto assai anche Alessandro Luongo, nei panni di un Belcore sempre disinvolto sulla scena, ora impettito nella divisa militaresca, ora furbescamente ammiccante nel corteggiare qualunque pulzella capiti a tiro. Quanto alla voce, non c'è che dire: attraente nel timbro e nel colore, e senza mende nella condotta tecnica. E poi c'è Dulcamara, che qui viene supportato da Carlo Lepore; surreale con la sua inusitata rubizza parrucca bicornuta, il basso napoletano fa dono d'un canto fluido e nitido, con bella morbidezza di fraseggio ed un sillabato inquadrato a perfezione nel ritmo vorticoso della sua entrata in scena. Soprattutto, gli siamo grati per un Dulcamara consegnato senza fastidiose cachinnerie e sapidamente guizzante nei suoi duetti con Nemorino e Adina. Unica zeppa del cast mi pare il Nemorino di Giorgio Misseri, alquanto generico, quasi svogliato nell'interpretazione scenica e un pochino pure nel fraseggio e nei colori; partecipa poco al gioco generale e persino i due momenti cruciali che gli spettano - «Adina credimi» e «Una furtiva lagrima» - a parte la bellezza della voce e gli acuti facili, si dipanano pressoché inerti, come se Nemorino fosse un collegiale inglese e non un paesanello innamorato cotto. A finire il cast, Arianna Donadelli con la sua Giannetta.

Omar Meir Wellber (dopo aver concertato Capuleti e Montecchi a gennaio, è stato impegnatissimo in questi stessi giorni a dividersi tra recite di Elisir e Don Pasquale, partiture peraltro a lui già ben note) guida con polso elastico e lucida articolazione l'Orchestra della Fenice, ottenendone tutti i colori necessari. Notevole anche la perizia nell'assecondare il fiorire spontaneo del canto donizettiano: delicatezza e languore qui, un pizzico di ironia e di brio là, la ricetta è servita a dovere. Qualche appunto però al Coro della Fenice, che mi è parso poco omogeneo nelle sue sezioni. Maestro al fortepiano Maria Cristina Vavolo.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)