Danza
LES 4 SAISONS...

Ancona, teatro delle Muse, “L…

Ancona, teatro delle Muse, “L…
Ancona, teatro delle Muse, “Les 4 saisons...” di Angelin Preljocaj IL CUORE NON SMETTE DI AMARE “Con la danza non voglio dimostrare nulla. Compongo una struttura coreografica a partire da temi che sviluppo. Ognuno può leggervi ciò che vuole, ognuno interpreta a suo modo. Ci sono tante letture quanti spettatori. Ciò che mi interessa è ciò che va al di là di me stesso. Io faccio qualcosa, poi il pubblico si fa carico di farne qualcos'altro, forse anche qualcosa di più bello” (Preljocaj). Rifiutando la consueta dicotomia tra tradizione e modernità, Preljocaj si muove liberamente, senza nostalgia del passato. È un coreografo che sfugge alle classificazioni, il suo eclettismo si manifesta sia nello stile dei balletti, dal narrativo all'astratto, sia nella forma che essi assumono. La sua opera, ad oggi una quarantina di creazioni (nelle Marche si era già visto il mistico “Annonciation”, al Rossini di Civitanova Marche nel luglio 2003 interpretato dal corpo di ballo del teatro alla Scala), sfugge a qualsiasi tentativo di classificazione; invece può essere compresa secondo diverse prospettive. Nella passione per la “scrittura del movimento” e nell'amore per il corpo che danza Preljocaj si richiama alla tradizione, preoccupandosi della forma, alla ricerca di una bellezza assoluta. È classico anche nella misura in cui riconosce ed appronta le regole della rappresentazione, spazio teatrale e rapporto frontale con il pubblico. Infine chiede ai suoi danzatori velocità, flessibilità, forza, precisione, resistenza, tutto ciò che deve possedere un ballerino classico. Ma può anche essere considerato un erede di Djagilev, nel modo di concepire la creazione come un'unione di arti. Qui si è rivolto all'artista Fabrice Hyber per le scene e costumi, anzi per la “caosgrafia” (una “meteorologia su misura”, la definisce Hyber). Ma è anche un coreografo postmoderno, perchè percorre il passato senza pregiudizi, rivisitando tutte le tradizioni e gli stili, ma sempre con una presa di distanza (passato come serbatoio a cui attingere a proprio piacimento a seconda del bisogno), un postmoderno che si oppone a quel moderno che aveva interrotto qualsiasi legame con il passato nella speranza di cambiare il mondo. Lontano da qualunque effusione eccessiva dei sentimenti, tratto così contrario alla sua natura, il coreografo sceglie di ambientare “Les 4 saisons...” in un contemporaneo atemporale. Lo stile, ora ritmato ora lirico, è sempre virtuosistico, il lessico accademico e quello contemporaneo si ritrovano strettamente mescolati. Il lavoro è sullo spostamento del peso, sulle cadute improvvise, i ralentis si accostano alle piroette, agli arabesque, alle altre figure classiche. Preljocaj è solito a questi contrasti, addirittura sono l'argomento de “La stravaganza”, in Italia visto alla Scala (che ha appena ospitato il romantico “Le parc”), dove confronta le tecniche accademiche e contemporanee su musiche di Vivaldi ed elettroniche. E Vivaldi è al centro di “Les 4 saisons...” con il suo concerto n. 8. Ma anche, e qui sta la grandezza del coreografo e dello scenografo, nei momenti di silenzio. Il meccanicismo settecentesco della musica contrasta con con la gestualità, dispiegata senza altra ragione se non il suo stesso dispiegamento. Nulla resta estraneo al corpo, a ciò che esso può provocare, ai significati che può portare in sé. L'inizio sorprende, il movimento è appena accennato, coperto da lunghe cappe scure sotto cui i ballerini sono nudi. Presto tutto diviene evidente: la musica è legata all'evocazione meteorologica, ma non esistono più le stagioni. Ma il lavoro è solo all'apparenza spensierato: tra frammenti ironici e divertiti, drammatici e romantici, Preljocaj impone la riflessione sugli stravolgimenti della Natura, a cui forse alludono le tute trasparenti indossate da due ballerini, strani orsacchiotti di plastica che si muovono come l'uomo sulla luna (le tute antinquinamento rivolgono l'attenzione allo stato di salute nostro e del pianeta); ogni qualche passo si bloccano e, frontalmente, alzano le mani, quasi a dire “non sparate, ci arrendiamo. Non ci sono più le stagioni, il clima è dominato dalla casualità. In scena la casualità è ben evidente, quando imprevedibilmente cadono a terra alcuni oggetti che danno spunto al movimento coreografico. E nel girare continuo di sole, nuvole, saette e oggetti, i più disparati che penzolano da una giostra sopra il palcoscenico. Cade un albero. E fa primavera. È uno schiaffo a scatenare un sussulto emotivo (non più le tensioni fra Est e Ovest) e nel passo a due l'amato si anima solo al contatto con l'amato, che lo fa vibrare solo sfiorandolo con le dita, in un crescendo di passione. Uno dei momenti creativi più alti è il frammento con la ballerina in costume da bagno sui tacchi a spillo che volteggia su mezzelune di gradini, fra partner gentili e smaniosi. Poi si scatena l'euforia del divertimento estivo, la frenesia che sconfina nella malattia (lui urla a lei “fermati, calmati”). L'uomo si riflette nell'animale, in un effetto osmotico reciproco, il leone di spugne e la ballerina. Si abbassa una luce, il movimento rallenta, la musica si liquefà in tonalità crepuscolari: è l'autunno, anche nell'anima. Lo spazio diventa acquoso, potrebbe essere un fondo di piscina svuotata dove le rane si muovono incuriosite, con le spugne che sembrano galleggiare. Ma di nuovo esplode, improvvisa, l'energia dell'uomo. Cade una corda dall'alto. E la coreografia arriva al vertice. L'inverno è bianco, rumore di perle, perle che decorano l'alberello, un tempo primaverile. Le perle che rimandano alla ricchezza, all'abbondanza delle feste. E contrastano con le povere stampelle attaccate ai calzoni nel duetto successivo, tutto maschile. Maschere veneziane, anch'esse bianche: due donne in contrasto per lo stesso uomo che lottano per introdurre il viso in una maschera vuota attaccata a un'altra identica indossata dall'uomo conteso. Dietro la maschera chi bacia chi? E chi ama chi, soprattutto? “Ma qui si gela” dice il ballerino, il freddo dell'inverno evocato anche dagli archi metallici, tiratissimi (l'esecuzione musicale, ora ruvida ed incisiva, ora intima e romantica è stata registrata da Giuliano Carmignola e dalla Venice Baroque Orchestra diretta da Andrea Marcon). Due istrici: nei loro contorcimenti ci sono tutte le pieghe dell'inverno. E una solitudine insuperabile, come quegli aculei che impediscono alle rane e ai ballerini di avvicinarsi. Ma nessuna paura, la giostra si rimette in movimento, gira e gira ancora. Come le stagioni, primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera. Tornano le figure dell'inizio, la giostra gira. Come le stagioni. Come la vita. Per amare c'è sempre tempo. Per amare c'è ancora tempo. Teatro tutto esaurito. Il pubblico non smette di applaudire. Il cuore non smette di amare. Visto ad Ancona, teatro delle Muse, il 17 novembre 2007 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Delle Muse di Ancona (AN)