Lirica
LES CONTES D'HOFFMANN

La genesi de Les contes d&…


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La genesi de Les contes d’Hoffmann, si sa, è travagliata, non fosse altro per il fatto che il loro stesso autore morì prima di poterne completare la composizione e che, come se non bastasse, la partitura originale fu perduta nel corso di un incendio. Scegliendo fra le varie edizioni critiche che si sono succedute negli anni, per la prima volta in Italia, Piacenza ha deciso di optare per l’esecuzione della versione Kaye/Keck che, al momento, parrebbe quella che più si avvicina all’archetipo originale e che riporta alla luce molta musica omessa nelle edizioni precedenti.

La scena pensata da Fabio Cherstich è fissa e riproduce l’interno di una grande stanza arredata in stile Biedermeier che, con poche modifiche, riesce a ricreare efficacemente tutte le ambientazioni richieste dal libretto. Le pareti sono rivestite da una tappezzeria modulata sulle tonalità del verde, sulla destra si apre un grande camino che funge da ingresso in scena per i personaggi che fanno riferimento alla categoria del fantastico o del sulfureo, sul fondo campeggia un sipario di velluto verde che si spalanca sovente su realtà appartenenti al mondo dell’immaginifico o del metafisico. Olympia muove i suoi passi fra bambole meccaniche vestite alla tirolese, quasi plasmata essa stessa da una luce cristallina di sapore alpino; la casa di Antonia si presenta, invece, come spoglia e tetra, invasa sul finale da miriadi di foglie appassite che calano dall’alto; Giulietta deambula sinuosa fra i fumi di un ambiente intriso di eleganza decadente che il brillio di uno specchio e i toni rossi delle luci, opportunamente curate da Luca Antolini, contribuiscono a venare di cupezza. Adeguati e in tono con i vari ambienti i costumi pensati da Valeria Donata Bettella; attenta ai particolari la regia di Nicola Berloffa che non ripiega mai su movimenti scontati e banali pur non distaccandosi troppo dalla tradizione.

Giorgio Berrugi è uno spigliatissimo Hoffmann che, non mutando mai d’abito per tutta la durata dello spettacolo, sottolinea così anche formalmente la sua funzione di collante e di trait d’union fra tutti gli episodi: l’emissione è facile e morbida, l’acuto si leva sempre a fuoco, il timbro è fresco e giovanile. Al suo fianco Simone Alberghini è la perfetta rappresentazione del male e di tutte le sue molteplici e mutevoli sfaccettature, mostrandosi alternativamente diabolico, mellifluo, vessatoriamente insistente e sfoderando tutte le sue grandi capacità teatrali: il colore è piacevolmente brunito, il fraseggio incisivo, l’intonazione sempre precisa. Elisa Cenni è una bambola dai movimenti talvolta un po’ fluidi che, a parte qualche leggera flessione di intonazione, ha saputo comunque ben inquadrare il proprio personaggio. Maria Katzarava incarna le figure delle altre amate con grande perizia interpretativa: la voce è bella, molto estesa e il suono sempre in maschera, soprattutto il ruolo di Antonia ne esce perfettamente cesellato. Florian Cafiero è sì Andrès, Spallanzani e Pitichinaccio, ma soprattutto un divertente e ben tratteggiato Frantz. Violette Polchi interpreta, invece, una adeguato Nicklausse e un’eterea Musa. Con loro Oreste Cosimo  (Nathanael e Cochenille), Aline Martin (Voix de la Tombe), Josef Skarka (Hermann e Peter Schlemil), Olivier Dejan (Maître Luther e Crespel), Andrea Bianchi (Wolfram), Alessio Verna (Wihelm).
Scenicamente efficace e spigliato il Coro del Municipale che a tratti ha però evidenziato qualche piccolo problema di insieme. Bacchetta vivace, disinvolta, ricca di colori e serrata nei tempi per un Christopher Franklin che, alla direzione dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, talvolta ci è parso non gettare uno sguardo troppo lungo verso il palcoscenico così da causare leggeri sfasamenti.

Visto il
al Municipale di Piacenza (PC)