La stagione lirica 2011-2012 del Teatro di San Carlo si chiude con “Les pêcheurs de perles” di Georges Bizet. La creazione giovanile (1863) del maestro francese mancava dal palcoscenico partenopeo sin dal 1959; tuttavia, a causa di una curiosa coincidenza di programmazione, il pubblico campano ha avuto di recente l’opportunità di gustarne le raffinate atmosfere e lo struggente lirismo grazie all’allestimento, del tutto diverso, del Teatro Verdi di Salerno (maggio 2012). In quest’ultima occasione la partitura era stata presentata nella versione spuria (ma consacrata da una lunga e fortunata tradizione esecutiva) che prevede l’uccisione in scena di Zurga alla fine del terzo atto, sacrificio estremo consumato sull’ara dell’amicizia; lo spettacolo napoletano, invece, segue l’assetto originale, nel quale il personaggio, dopo aver consentito alla coppia degli amanti di fuggire, lascia egli stesso la comunità dei pescatori e si avvia a intraprendere una nuova vita.
La messinscena sancarliana, che viaggia su binari sobriamente tradizionali, si caratterizza anzitutto per l’efficace impatto visivo. Le belle scene di Giorgio Ricchelli sono dominate dall’azzurro del mare e del cielo e presentano soluzioni essenziali, che non indulgono allo sfarzo e preferiscono evocare attraverso il simbolo piuttosto che descrivere minutamente. La «plage aride et sauvage» dell’avvio è resa con un gioco di dune digradanti, mentre la testa colossale di un dio sintetizza le «ruines d’un temple indien» del secondo atto; nel terzo trovano posto due suggestive invenzioni: la «tente indienne fermée par une draperie» prescritta dal libretto di Eugène Cormon e Michel Carré è sostituita dai resti di un portico avviluppati dalla vegetazione, con dichiarato rinvio alle meraviglie archeologiche della città cambogiana di Angkor, antica capitale dell’impero Khmer; il rogo dell’ultimo quadro, invece, è reso con un gigantesco albero carbonizzato che si protende verso il cielo. Sulla lineare omogeneità delle ambientazioni i costumi di Alessandra Torella risaltano per ricchezza di materiali e varietà di riflessi. Il regista Fabio Sparvoli governa con sapienza il movimento scenico, conferendo la giusta solennità ai momenti rituali e processionali (ma perché sempre tanta gente sdraiata, anche senza apparente motivo?). A vivacizzare la rappresentazione provvedono i numerosi balli, luogo di un’azione parallela attraverso la quale le entità soprannaturali inviano ai protagonisti umani segnali propizi o presagi sinistri. Le coreografie di Annarita Pasculli, ben eseguite dal corpo di ballo del teatro, attingono con fantasia a diverse tradizioni ‘esotiche’, ora richiamando una gestualità di ascendenza vagamente birmana, ora citando minacciose posture maori.
Molto buona la prova del quartetto vocale. Patrizia Ciofi dona a Léïla il giusto equilibrio tra levità virtuosistica e intensità drammatica, e sfoggia una vocalità agile, precisa ed espressiva, anche se di volume non amplissimo. Il tenore russo Dmitry Korchak è un Nadir solido ed elegante, capace di superare con plauso l’arduo banco di prova di “Je crois entendre encore” nonostante qualche lieve incertezza negli acuti. Il baritono uruguaiano Dario Solari sostiene il ruolo di Zurga con bel timbro e buon carattere. Di tutto rispetto anche la prestazione di Roberto Tagliavini nella parte di Nourabad. Una menzione speciale merita il coro sancarliano, diretto da Salvatore Caputo, capace di disimpegnare in modo convincente sia i pannelli più solenni, sia gli interventi più concitati. Salda la conduzione di Gabriele Ferro, che dal podio amministra i tempi e le sonorità con gusto squisito.