Strano caso del destino, quello de Les pêcheurs de perles di Bizet. Opera giovanile, prodotta nel 1863 al rientro dal soggiorno romano, ed accantonata per la modesta accoglienza del Théâtre Lyrique. E poi ripescata coraggiosamente dall'editore Sonzogno che la portò alla Scala nel 1886, e quindi a Parigi nel 1889: l'anno dell'Esposizione Universale e della Tour Eiffel. Restituita così al repertorio corrente nella longeva versione ritmica dello Zanardini, apprezzata in Italia ed altrove, trascurata invece ancora per decenni in Francia. La struttura e la distribuzione dei pezzi sono un po' rigide - si intuisce l'inesperienza del 24enne autore - ma in compenso ogni sua pagina riluce di generosa e fresca musicalità, tanto nella purezza delle linee di canto quanto nelle splendide tinte strumentali, là dove spicca il talento d'orchestratore. Nella sua minima distribuzione di ruoli – tenore, soprano, baritono, un basso a far da comparsa - Les pêcheurs de perles è un'eccellente palestra per grandi interpreti. In particolare la figura di Nadir, tutta giocata sulle mezze voci, sui suoni misti, sui gradienti espressivi, ha attirato sempre molti grandi tenori di grazia. Gente come Gigli, Thill, Simoneau, Kraus che la cantò proprio qui a Trieste nel 1978.
Un cast esemplare
Insomma, Les pêcheurs è un gioco a tre voci, e qui tre buone voci ci sono, per fortuna. In queste recite triestine troviamo infatti la garbata tenorilità del giovane messicano Jésus Léon, contraddistinta da una voce non molto espansiva quanto a potenza, ma nondimeno piacevolmente limpida e dal timbro accattivante, e sopra tutto amministrata con buona destrezza grazie anche ad evidenti ottimali basi di studio. Lo dimostrano gli attacchi a mezza voce, il fraseggio sorvegliato, i bei filati della romanza «Je croi entendre encore», e lo slancio di «De mon amie». Con la sua Léïla Mihaela Marcu approda ad un ruolo che le si adatta a perfezione, dato che lo si potrebbe definire un inno alla tecnica di coloratura, costellato com'è di volute melodiche e di momenti acrobatici di gusto squisitamente parigino. Appassionato e tenero al tempo stesso è il suo personaggio, come sempre molto bella si mostra la voce in sé, curata l'emissione, ben risolte le agilità eteree di «O Dieu Brahma». Bravissimi poi, insieme, i due amanti nel trasporto del duetto «Ton coeur n'a pas compris». Zurga - il terzo incomodo della storia - è qui il bravissimo Domenico Balzani, che si mostra pienamente consapevole e padrone della situazione, trovando sempre le giuste sfumature e bei colori. Il suo è un canto virile ed appassionato, però mai spinto all'eccesso, risolvendo con finezza la figura più sfaccettata - vocalmente e psicologicamente - di quest'opera sia nel duetto dell'amicizia, sia nello slancio melanconico dell'aria «O Nadir, tendre ami». Corretti gli interventi del basso Gianluca Breda nei panni sacerdotali di Nourabad; il Coro, seguito da Francesca Tosi, mi pare abbia ahimé pesantemente cincischiato per tutta l'opera, naufragando miseramente nell'impegnativo «Quelle voix nos appelle?» .
Quanto alla splendente direzione di Oleg Caetani, appare giocata con perspicacia ed una indubbia eleganza tra la ricerca del bel suono e delle tinte giuste – e qui l'Orchestra del Verdi lo asseconda a dovere – e la resa di un solido andamento narrativo, facendo sì che l'atmosfera generale resti in conveniente e sottile equilibrio tra una certa curiosa epopea di stampo salgariano – Mompracem, Yanez e Sandokan non sono molto lontani – ed il facile esotismo à bon marché dei boulevards parigini.
Torna in scena uno spettacolo di nove anni fa
La messinscena di queste recite marzoline è la stessa presentata al Verdi nel 2008 per le quali Giorgio Ricchelli disegnò scenografie minimalistiche, mostrandoci man mano una landa sabbiosa dove poi spunta un'enorme testa di divinità; un tempio soffocato da un intrico di radici; ed infine un imponente albero scheletrito. La regia di Fabio Sparvoli – anch'essa condotta su ristretti binari inventivi – è stata qui ripresa e potenziata da Carlo Antonio De Lucia. A dare vivacità, in molte scene troviamo gradevoli coreografie – non è dato il merito a nessuno, in locandina - affidate a otto efficienti danzatori. Aggraziati nel disegno e pertinenti al clima, tra esotico e fiabesco, dell'opera i costumi firmati da Alessandra Torella.