Nour non ha che vent’anni quando decide di raggiungere l’Iraq per sposare un combattente del nascente Stato Islamico, lasciando suo padre professore universitario e teologo islamico illuminista che, rimasto vedevo molto presto, si è preso cura di lei e della sua formazione. E’ questo il plot di Lettere a Nour, lo spettacolo andato in scena al teatro Caio Melisso nell’ambito di Spoleto Festival 2018, tratto dall’originale di Rachide Benzine e prodotto da Emilia Romagna Teatro per la regia di Giorgio Sangati.
Perché non ho visto niente?
Franco Branciaroli, seduto su una vecchia poltrona circondata da libri, dialoga con la giovane Nour, interpretata da Margherita Occhionero, è un dialogo fatto di lettere prima postate su un sito internet poi, con l’incalzare degli eventi e la chiusura del sito stesso, recapitate da un anonimo mediatore. “Perché non ho visto niente?” chiede e si chiede il vecchio professore, mentre Nour dipana le ragioni della sua scelta radicale, ragioni che comprendiamo essere, se non condivisibili, quanto meno interpretabili.
Il confronto tra i due infatti non è un semplice confronto tra generazioni, le loro reciproche rivendicazioni non prescindono mai dall’amore profondo che li lega, “Seguiamo la via del cuore” ribadirà più volte il vecchio professore che nel frattempo subisce aggressioni e perde la cattedra proprio a causa delle sue troppo libere interpretazioni del Corano. Il loro non è neanche uno scontro tra due visioni dell’Islam, ma molto di più: è lo scontro tra una razionalità che troppe volte rimane sterile e la voglia di cambiare il mondo che spesso fa tutt’uno con le peggiori forme di integralismo.
“Che cosa può la tua filosofia per loro?” chiede Nour al padre, facendogli intravedere la comoda torre d’avorio in cui si è rinchiuso, “Il contrario della conoscenza non è l’ignoranza, ma la certezza”, asserisce il padre appellandosi al diritto/dovere di fare del dubbio la norma suprema.
Le parole vincono sui segni
Lo spettacolo sembra avvicinarsi al testo con equilibrio e delicatezza, non sovrappone alle parole segni eccessivi e non chiede allo spettatore di interpretare, ma piuttosto di ascoltare. Le sottolineature armoniche del Trio Mothra, dal vivo in scena, il disegno luci essenziale e pulito, la scenografia fredda nella sua verticalità, una specie di enorme stanzone dalle pareti quasi sepolcrali, la recitazione controllata e mai sopra le righe, tutto concorre a mettere in primo piano la vicenda drammatica di un padre e di una figlia, cui si aggiunge la nipotina dall’emblematico nome di Jihad, e che si conclude con il sacrificio di Nour e un ritorno alle proprie responsabilità del vecchio professore.
“Non posso più permettermi di diventare vecchio, c’è da far crescere Jihad” sarà una delle sue ultime battute. Branciaroli interpreta il padre puntando sulla moderazione, propria di un teologo illuminista, certo, ma che di tanto in tanto tradisce frustrazione e scatti di orgoglio venati di stanchezza, la Occhionero è invece una Nour attenta ai cambiamenti, passando con estrema naturalezza dai toni entusiastici della prima parte a quelli più accesi del confronto con suo padre, fino alla rassegnazione gioiosa ma incredula del finale.