L’impresario delle Smirne, frutto di un adattamento dall’originale goldoniano ad opera di Roberto Valerio che ha curato anche la regia dello spettacolo, getta un’occhiata impietosa, a tratti cinica, sugli orizzonti limitati e le meschine rivalità in cui si dibatte un certo mondo del teatro.
La vicenda è presto detta: giunge a Venezia un ricco turco che intende costituire una compagnia di artisti italiani da portare con sé in patria e incarica a questo scopo il conte Lasca viscido agente che ben conosce il mondo degli attori, le loro fragilità e debolezze, e di ciò si approfitta. Ed ecco che fra gli spiantati protagonisti della vicenda nascono contenziosi di ogni tipo su chi farà la prima parte e chi la seconda, si nutrono speranze di vedere uno spiraglio di sereno dopo tante ristrettezze. Il turco appare di fatto più interessato alle avvenenze femminili che alla professionalità dei candidati e, avuto sentore delle richieste di ognuno e della gara all’ultimo sangue portata avanti fino allo spasimo da tutti i membri della compagnia, preferisce alla fine rinunciare e partire per nave da solo.
Semplice quanto efficace la scenografia di Giorgio Gori, un interno, articolato su tre livelli, chiuso da tre pareti di fondo tappezzate da vecchi manifesti cinematografici che rendono bene l’idea della decadenza, anche architettonica, della locanda in cui si svolge gran parte della storia. Privi di un particolare riferimento temporale i costumi di Lucia Mariani.
Perno della vicenda è la figura del conte Lasca magistralmente interpretata dallo stesso Roberto Valerio. Il personaggio è untuoso, mellifluo, ripiegato su se stesso, avanza lentamente quasi strisciando, sfoderando un sorriso imbevuto di segrete represse perversioni. Più ironica, investita di una carnalità quasi animalesca, la figura del turco Alì, alias Nicola Riganese, che ben delinea, fin dalla prima entrata in cui volteggia come un bambino su un’altalena, la crassa ignoranza mista ad un’astuzia ferina del suo personaggio, caratteristiche ben percepibili anche solo dall’avido brillio dello sguardo. Valentina Sperlì (Tognina) e Federica Bern (Annina) si sentono entrambe prime donne e si contendono questo ruolo con le unghie e con i denti, fatti salvi alcuni brevi istanti di alleanza contro la ben più spregiudicata Lucrezia (Chiara Degani) che tenta, facendo uso di ben altre tecniche suasorie, di soffiare loro il posto. Meno convincenti e incisivi, invece, i personaggi maschili partendo dal comico Carluccio di Antonino Iuorio, passando per il Pasqualino di Alessandro Federico per giungere al tedeschissimo locandiere Beltrame di Peter Weyel che si mostra però davvero bravo nei giochi con i birilli. A completare il quadro l’interessante Maccario di Massimo Grigò, figura di poeta un po’ impacciato, destinato a scrivere un testo ritagliato ad hoc sulle esigenze della compagnia.
Ne esce uno spettacolo gradevole, intriso di un’innegabile vena comica che ne rende piacevole e lieve la visione, ma che, ad una lettura più profonda, può far riflettere su quelli che ancora oggi sono i difetti più gravi dell’umanità, che spesso fanno fallire imprese collettive grazie all’attaccamento di ognuno di noi, per dirla con Guicciardini, al proprio “particulare”.