Lirica
L'INCORONAZIONE DI POPPEA

50 sfumature di Wilson in grigio

50 sfumature di Wilson in grigio

Grigio, grigio-bianco, grigio-blu, grigio-malva, grigio-verde, ma anche grigio-rosa e grigio-giallo: mentre al cinema impazzano le sfumature del noto bestseller, alla Scala vanno in scena tutti i toni di un “maestro” del grigio, Bob Wilson. Algida raffinatezza estetica e perfezione musicale sono la cifra artistica della nuova produzione dell’Incoronazione di Poppea che conclude, senza sorprese, la trilogia di Monteverdi  firmata da Bob Wilson e Rinaldo Alessandrini. Autoreferenziale lo spettacolo di Wilson che sembra mettere in scena, più che il capolavoro monteverdiano, se stesso e i propri stilemi divenuti un marchio di fabbrica applicabile a qualsiasi opera: minimalismo iperraffinato, sfondi luminosi dalla palette inimitabile, gestualità scolpita e nipponizzante, fissità dei volti. Decisamente freddo, ma altrettanto bello.

Gran parte del fascino si deve al light design del maxischermo che domina la scena con variazioni impercettibili, ma pur significative, di luminosità, densità e tono nella scala cromatica di elezione dell’artista texano. La scena è vuota con oggetti simbolici della romanità che solo nell’aumentare della luminosità acquistano senso, come il grande capitello corinzio rovesciato, l’obelisco, un sedile di pietra. Dall’alto scendono pannelli ed elementi architettonici allusivi a una Roma antica e ricreano, con un sistema di pieni e vuoti, una domus di grande rigore geometrico; in un cambio di prospettiva interno/esterno, alle colonne si sostituiscono alberi stilizzati e siepi di un giardino.
La scena si chiude ulteriormente durante l’addio di Seneca ai familiari e, attraverso un varco, si vede un cipresso appeso nel vuoto con le radici a vista, mentre variazioni cromatiche notturne tingono le mani di blu.
Il finale, anche per la straordinaria portata emotiva dell’amoroso duetto “Pur ti miro, pur ti godo” , tocca emotivamente lo spettatore in un notturno dall’oscurità sempre più spessa e intrigante dai profondi toni verdi e turchesi che invitano, finalmente, all’amore e ai sensi.

I personaggi hanno il volto dipinto di bianco e le bocche spalancate in un’espressione congelata dal trucco, le mani in guanti bianchi si aprono a dismisura per catturare la luce, le posture sembrano essere concepite per il disegno che si proietta sullo sfondo dove acquistano progressivamente volume e dimensione. Del movimento scenico infatti, più che l’aspetto drammaturgico è esaltato il disegno, con una  gestualità elegante ma rigida e definitiva, che nega la sensualità e mutevolezza barocca insita nel testo. Inoltre l’impostazione iperestetica di Wilson è monocorde e non sfrutta tutti gli aspetti (comico, drammatico, erotico, satirico, politico) presenti nello straordinario libretto. Unica eccezione i personaggi popolari che, con  l’ondeggiare delle anche e del capo e il gesticolare delle braccia, risultano divertenti e trasmettono anima e calore come fossero personaggi della Commedia dell’Arte.
I costumi elisabettiani di Jacques Reynaud di seta rigida color cipria o dai toni bronzei hanno architetture e profili ben definiti e vedono colletti di pizzo dalle punte inamidate, sbuffi e rigonfiamenti marcati e anche le acconciature raccolte sono scolpite come bassorilievi.

Ottima la scelta del cast. Miah Persson sotto il cerone bianco lascia trasparire una Poppea di grande bellezza e seduzione; la voce è agile e luminosa e stupisce per stile e dizione. In questa edizione Nerone è stato affidato a una voce tenorile: la scelta stempera i tratti del controverso imperatore che appare qui, grazie alla bella voce lirica di Leonardo Cortellazzi, un distillato di dolcezza mista a fierezza. Il personaggio che ci è piaciuto di più è stato l’Ottone di Sara Mingardo per gli accenti intrisi di pathos, il declamato palpitante, il canto che si spegne o accende con delicatezza in una miriade di sfumature. Di Monica Bacelli lodiamo, oltre al colore brunito, l’eccellente dizione e le doti di fraseggio, che intridono di nobiltà l’addio di Ottavia a Roma. Bene il Seneca di Andrea Concetti per la giusta gravitas e l’emissione curata che contribuisce a sottolineare la saggezza carismatica del filosofo. Gradevole la Drusilla di Maria Celang, ma lo stile è da da affinare. Diverte il pubblico l’Arnalta di Adriana di Paola che delinea con la mimica, il gesto e le smorfie un personaggio decisamente vivace. La nutrice è affidata a un cantante –attore (Giuseppe di Vittorio) e il ruolo sconfina un po’ troppo nel parlato. Fra i ruoli minori ci è piaciuto il Lucano di Luca Dordolo (anche Primo soldato, Secondo familiare e Secondo console), Furio Zanasi dà voce piena a Liberto (pure a Secondo soldato e Primo tribuno). Mirko Guadagnini interpreta il Valletto, Luigi De Donato è Mercurio e Littore, Silvia Frigato è Amore.

Rinaldo Alessandrini, specialista del repertorio barocco, propone una nuova edizione dell’opera in cui confluiscono elementi diversi attinti alle due partiture dell’opera pervenute (napoletana e veneziana) interpolate secondo il proprio gusto musicale. L’organico è estremamente ridotto ma sollevato rispetto alla buca e dotato di sistema di amplificazione e il suono risulta eccellente. La direzione è rigorosa, estranea a qualsiasi autocompiacimento ed eccessiva opulenza timbrica e si apprezza la cura con cui accompagna i recitativi dando pieno risalto al testo e alla singola parola. In sintonia con la regia la direzione propende, soprattutto nella scelta dei tempi, per una lettura rarefatta che inevitabilmente attenua la ricchezza dinamica della partitura.

Grande successo alla fine e calorosi applausi per tutti.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)