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L'INGEGNER GADDA VA ALLA GUERRA

Tra Gadda e Shakespeare Gifuni racconta l'Italia

Tra Gadda e Shakespeare Gifuni racconta l'Italia

Feroce e ironico affresco dell'Italia tra la “grande guerra” e l'ascesa del Fascismo, con l'epos negato e inglorioso delle attese e delle disfatte e la seduzione delle masse dell'incessante e tronfia retorica del regime ne “L’Ingegner Gadda va alla guerra (o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro)”, vertiginoso assolo di Fabrizio Gifuni, per la regia di Giuseppe Bertolucci, in cartellone dal 25 al 29 aprile 2012 (in casuale ma felice coincidenza di date) al Teatro Massimo di Cagliari per la Stagione di Prosa del CeDAC. La prosa immaginifica di Carlo Emilio Gadda, traboccante di metafore e iperboli letterarie nel celebre saggio “Eros e Priapo”, satiri psicoanalitica del Ventennio si giustappone ai ricordi giovanili del “Giornale di guerra e di prigionia” con la deludente scoperta della verità (amara) sul mestiere delle armi del novello sottotenente a Edolo, in Val Camonica per intrecciarsi, in un raffinato gioco metateatrale, con frammenti dell'“Amleto” di William Shakespeare. Luci e ombre su una scena scarna dominata dal corpo e la voce dell'attore (nonché ideatore del progetto, che in dittico con il pasoliniano “’Na specie de cadavere lunghissimo” compone un'“Antibiografia di una nazione” e dramaturg), tra mimesis e simboli, dialoghi e citazioni dei grandi maestri del teatro e perfide “canzonette” d'epoca, disegnano maschere grottesche e sortilegi notturni, scandiscono la solitudine del (futuro) guerriero tra compagni diversi e le inquietanti visioni del Principe di Danimarca, (in)seguono il filo logico del pensiero sulla fatale inanità degli italiani «troppo acquiescenti al male». Malinconia e rabbia – davanti alla manifesta inadeguatezza dei comandi e la distanza dei governanti dalla realtà del fronte – affiorano dalle note del diario del “Gaddus” poco più che ventenne arruolatosi come volontario, inizialmente animato da bellici fervori salvo poi confrontarsi con la routine quotidiana tra escursioni esplorative in montagna e eccessive indulgenze nella mensa, scherzi e buffonerie malgraditi fino al tragico confronto con la morte. Appunti privati, testimonianze di una duplice insofferenza – nell'inazione e nell'assurdità di errori e sprechi dell'erario: la macchina di guerra ha scarpe malfatte e mal cucite, la sofferenza dei soldati ingiustamente e inutilmente si inasprisce per colpa di chi non sa o non vede e la conta dei morti segna invariabilmente sproporzioni fra truppe e ufficiali. Finché in prossimità del fronte l'arduo esercizio del coraggio si compie non nell'impeto dell'assalto ma nella fermezza davanti al fuoco nemico e come ne “Il castello di Udine” è lode alla virtù – pur con qualche umana debolezza - dei soldati italiani. Tra le righe traspare la sfera degli affetti, l'apparente rivalità guerriera con il fratello, la tensione, la noia, il fastidio del disordine nel campo e l'algido e innevato “ordine della natura” in un costante mutare di condizioni e stati d'animo che culmina nell'amarezza della sconfitta e la durezza della prigionia. Viaggio nella mente (e nel cuore) del giovane sottotenente tra entusiasmi e dubbi, personali idiosincrasie e giustificata indignazione per un emblematico racconto della vita nell'esercito, con l'alternarsi della fortuna e il brivido del pericolo, la tentazione della gloria e il sacrificio degli (involontari o incoscienti) eroi. Cronache belliche nei dettagli del quotidiano a far da pendant allo splendido, lucido, sarcastico e irridente delirio dell'Alì Oco De Madrigal, fantasioso anagrammatico pseudonimo dell'autore nel pamphlet che mette a nudo il tiranno: svelati gli inganni e i trucchi del misero teatrino del'autorappresentazione del potere, Gadda trova in “Eros e Priapo” la misura del fascino pericoloso del Duce, fino all'ipnosi collettiva o eccesso di tolleranza culminante ne «il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di Logos». Istrionici virtuosismi in un drammatico e cupo crescendo, per un'accurata ricostruzione dell'origine della dittatura, in chiave verosimilmente patologica: «Vorrei, e sarebbe il mio debito, essere al caso d'aver dottrina di psichiatra e di frenologo di studio consumato in Sorbona: da poter indagare e conoscere con più partita perizia la follia tetra del Marco Aurelio ipocalcico dalle gambe a ìcchese: autoerotomane affetto da violenza ereditaria». L'incubo pauroso e le menzogne a copertura de «i crimini della trista màfia e di tutti li “entusiasmati” a delinquere» rivivono nella rievocazione dell'orgia fallica del potere e innegabili coincidenze impongono le similitudini tra lo ieri e l'oggi, finché il rito carnascialesco svanisce e occhi negli occhi l'artista metamorfico rivelatosi attore e uomo suggerisce il dubbio che nei corsi e ricorsi della storia sia impigliato il presente e già il futuro del Belpaese, e insilla (forse) implicito il germe rivoluzionario della ritrovata/rinnovata democrazia e libertà. 

Visto il 25-04-2012
al Massimo - Sala Grande di Cagliari (CA)