Ardimento e coraggio nello sfidare “mostri sacri”, temi importanti, già affrontati da grandi autori, teatrali e non: questo caratterizza “Lingua madre – Mameloshn”, interessante allestimento di Paola Rota a partire da un testo della drammaturga Sasha Marianna Saltzmann. Ecco dunque il “totem” dell’ebraismo, col suo particolare sguardo alla vita e una serie di argomenti correlati: il kosher tra innovazione e tradizione, la lingua yiddish, la delicata trama dei rapporti familiari e, soprattutto, la psicanalisi, come prospettiva di analisi delle cose di se stessi e del mondo, ribaltamento di stereotipi, arma affilata di affermazione di sé.
Un mosaico riuscito
A partire da questi elementi, il rischio era ovviamente cadere nel didascalico, in un risultato quantomeno scontato. Il lavoro di Rota ha invece il merito di amalgamare tutti questi ingredienti, probabilmente già combinati in modo felice a partire dalla base drammaturgica, in un mosaico variegato, in cui l’“urgenza comunicativa”, ma anche un livello costante di pathos e impatto emotivo sullo spettatore non subiscono sopraffazione da parte dell’architettura della narrazione.
Scopriamo anzi, nel dipanarsi delle scene, con una gradualità studiata, accorta, che ci rimanda ai “trucchi del mestiere” di Eduardo De Filippo, una storia e appassionante: un confronto – scontro tra donne di tre generazioni diverse, nonna, madre e figlia adolescente, a partire dal trauma della scomparsa volontaria del figlio, unica figura maschile della pièce, presentato al pubblico solo attraverso le lettere, perlopiù laconiche e confuse, che scrive alla sorella. Attorno a quest’assenza, con una modalità che ci ricorda “La grande sera” di Giuseppe Pontiggia, è organizzato il coro narrativo di voci femminili, dolenti e profondamente vive, autentiche.
La dittatura, le assenze, il dolore
Ecco quindi che l’intero lavoro, il “volo dell’eroe”, o meglio delle tre eroine, può essere letto come un percorso di attraversamento e superamento di un dolore, biografico sì, ma anche biologico, un po’ come quelle parabole depressive in cui, a livello intrapsichico, è difficile distinguere tra componente genetica e traumatica. All’interno di questo dolore, ciascuna delle tre donne non risparmia alle altre ferite, sarcasmi, rancori: Clara rimprovera alla madre Lin di essere stata assente e anaffettiva, assorbita da una vita nel partito socialista. Lin rinfaccia a Clara di aver allontanato i figli con la sua apatia e assenza di ideali. Rahel, la più giovane, in mezzo a questo duello, cerca la sua personale lingua madre, il mameloshn, quell’impasto linguistico in cui ci si sente a casa, nel quale è possibile dire e capire tutto, incluse le barzellette. Ed è proprio nelle “storielle”, nel breve e corrosivo umorismo che resta in fondo racchiuso il sapore di questa storia: l’amarezza e la risata, uno sguardo cupo che sa farsi subito sorriso, ironia, riconoscimento e affermazione di sé.